Articolo apparso su "La Provincia" di mercoledì
7 maggio 2003
LA STORIA: Un sopravvissuto comasco
va a Kahla per la riapertura delle gallerie dove nel ’45 i
nazisti preparavano le armi segrete.
<<IO, SCHIAVO NELL'ULTIMO LAGER DI
HITLER>>
Una vicenda salvata dall’oblio grazie alle ricerche dell’Istituto
"Perretta"
di Pietro Berra
Partì per il servizio militare che pesava
59 chili, quando gli americani lo liberarono era ridotto a 36. In
questi numeri e racchiusa la tragedia di Peppino Camelliti, 78enne
di origini calabresi residente a Como dal '62. Ma altre cifre gli
danno motivo di ritenersi fortunato: non è infatti tra i
5-6 mila prigionieri, su circa 10 mila, che trovarono la morte nel
"suo" lager, quello di Kahla, uno degli ultimi attivati
da Hitler nella primavera del '44 per costruire le armi segrete,
in particolare i caccia a reazione Messerschmitt Me. 262, con cui
sperava di ribaltare le sorti della seconda guerra mondiale. Domani
il sopravvissuto tornerà in Germania per rappresentare anche
i tanti compagni morti alla commemorazione organizzata dal land
della Turingia. Ma quella in programma sabato non e una semplice
cerimonia, bensì il culmine del recupero di un pezzetto di
storia dimenticata. «Kahla era zona militare dell'ex Germania
Est. Quindi per mezzo secolo è sceso l'oblio sulle gallerie,
dove migliaia di internati avevano lavorato in condizioni bestiali»,
spiega Valter Merazzi, direttore dell'istituto «Perretta»
di Como, cui spetta il merito di aver messo in contatto Camelliti
con una giovane ricercatrice tedesca, Ulriche Kaiser, che ha ricostruito
in un cd-rom la storia del famigerato lager.
A Kahla Camelliti arrivò il 7 gennaio 1945.
Aveva seguito più o meno lo stesso iter di altri 640.000
militari italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre '43.
Deportato in Germania, ricevette a dicembre, nel campo di concentramento
di Custrin, la visita di Mussolini che chiese a tutti chi volesse
aderire alla Repubblica di Salò. Lui si rifiutò, ma
non per ragioni ideologiche, che non aveva una formazione politica
e a scuola si era fermato alla terza elementare per caricarsi sulle
spalle il sostentamento della famiglia, dopo che il padre era tornato
invalido dalla campagna d'Africa. «Cercavo di seguire la massa
- racconta -, di stare dove c'era più gente». Si illudeva
anche che il lavoro coatto sarebbe stato meno peggio della guerra.
«Prima lavorai in un' azienda agricola -
ricorda Camelliti -, poi in una fabbrica di carri armati a Nordhausen.
Il 20 ottobre del '43 mi cadde sul piede un pezzo di motore e fui
portato in un cinema trasformato in ospedale per i prigionieri italiani.
Mentre ero ricoverato, chiesero ai miei compagni chi volesse passare
civile. A quelli che accettarono, tolsero le guardie e diedero un
tesserino por circolare, a me invece nessuno domandò niente
e fui mandato a Kahla assieme a quanti si erano rifiutati».
Che aria tirava in quel posto lo si capì la prima sera, quando
«fummo sbattuti in un capannone buio, senza feritoie, senza
paglia per terra».
Camelliti usa un'immagine amena per spiegare la situazione logistica
della fabbrica di Kahla: «Era un po' come Brunate - dice -:
al livello del lago c'erano le gallerie lunghe 35 chilometri in
cui si costruivano i pezzi degli aerei a reazione, all'esterno dei
capannoni per assemblarli, poi una specie di funicolare che serviva
per trasportare i mezzi sulla cima, dove si trovava una pista per
il lancio».
Tutto - gallerie, ferrovia a cremagliera e pista - era stato realizzato
dai prigionieri in condizioni bestiali: indosso la stessa divisa
estiva con cui erano partiti dall'Italia, ai piedi zoccoli olandesi
e tutt'intorno ghiaccio, con la temperatura che è arrivata
fino a 27 gradi sotto zero. Turni di 12 ore, alla fine dei quali
veniva rilasciato un bollino per l'unico pasto quotidiano, costituito
di un mestolo di brodaglia e 100 grammi di pane.
«Un giorno - ricorda Camelliti – hanno fatto il contrappello
mentre io stavo minando il terreno sulla cima del monte. Mi segnarono
assente e non ricevetti il bollino. Ho avuto fortuna, perché
uno di qui, un lombardo che si chiamava Santo Colombo e riceveva
la corrispondenza attraverso la Croce rossa internazionale, mi diede
un po' del suo riso. Ma le due sere successive non mangiai nulla.
La terza chiesi all'interprete di accompagnarmi dalle Ss: se mi
ammazzano non mi interessa, pensai, così non posso più
andare avanti». Previa scarica di botte e l'accusa di essere
un lavativo, riebbe il suo tesserino. Violenza chiama violenza,
anche nella memoria.
Camelliti ricorda altri episodi emblematici: «Un italiano
passato con le Ss - dice – ne ammazzò un altro, che
cercava qualcosa da mangiare nella spazzatura». Una volta
tutti gli occupanti della sua baracca furono puniti per colpa di
due che erano fuggiti dal lavoro per rubare delle patate: «Per
cinque sere ci fecero trasportare sacchetti di sabbia da un fiume
al campo e dal campo al fiume, senza scopo».
Tanti ne ha visti morire Camelliti, sulla pista, nelle gallerie,
nelle baracche. «Li avvolgevano in una coperta e li facevano
scomparire».
Un giorno l'interprete convocò i sopravvissuti per dirgli
che o la Germania vinceva la guerra, oppure li avrebbero uccisi
tutti. Effettivamente un maggiore della Luftwaffe aveva ricevuto
l'ordine di portarli nelle gallerie e farle saltare in aria, prima
che arrivassero gli americani. Ma non lo eseguì, per paura
dei tribunali alleati.
Tutto questo ha reso a Hitler più di una quarantina di aerei.
A Kahla Camelliti tornerà con i figli e anche con un nipotino
di otto anni. «Ogni tanto - racconta la mamma di quest'ultimo
- mi chiede perché il nonno sia tornato
a casa. I ragazzi di oggi vedono la guerra come un videogioco».
CHI E’
Peppino Camelliti è nato a Giffone (Rc) il 23 luglio 1924.
Venne chiamato alla armi nell'agosto del '43, di leva a Livorno
nel 7° artiglieria. Catturato dai tedeschi il 12 settembre,
fu deportato in Germania, dove svolse lavoro coatto. Gli americani
lo liberarono il 3 aprile '45 e lo rimpatriarono il 24 luglio.
«Arrivammo a Como per caso - spiega -, poiché dalla
Francia non ci lasciarono passare, allora optammo per la Svizzera».
Dopo la visita al distretto, fu trasferito a Milano, quindi approfittò
di una licenza per andare in Calabria, dove sposò la ragazza
con cui si era fidanzato prima della guerra.
A Como è tornato nel '62 per lavorare come muratore.
Da 38 anni vive con la famiglia ad Albate. "Ho scelto questa
città - racconta - perché c'erano dei miei compaesani.
Nel '45 vi passai così in fretta, che non sapevo nemmeno
che ci fosse il lago».
La beffa degli indennizzi
Niente risarcimento: l'ex internato fa ricorso
«Siamo spiacenti di informarla che la sua richiesta di indennizzo
non può essere accolta ai sensi della suddetta legge. Nel
notificarle questa decisione. l'Oim desidera comunque esprimere
il proprio riconoscimento e rispetto per ogni vittima del regime
nazista». Con queste parole l'Organizzazione internazionale
delle migrazioni ha rigettato, lo scorso 29 gennaio, la domanda
che Peppino Camelliti aveva presentato il 30 novembre 2001 per accedere
al fondo di 10 milioni di marchi, stanziato dalle aziende e dal
governo tedesco al fine di risarcire i lavoratori coatti del Terzo
Reich. Ma la legge istitutiva della Fondazione incaricata di distribuire
i soldi ha escluso
gli Internati militari italiani, equiparandoli ai prigionieri di
guerra, anche se Hitler non li considerò tali proprio per
poterli sfruttare in spregio alla Convenzione di Ginevra. L'unica
eccezione viene fatta per coloro che furono rinchiusi nei Kz, i
campi di sterminio come Auschwitz e Dachau. Così solo 1698
nostri connazionali hanno ottenuto l'indennizzo, su 130.959 richiedenti.
Venerdì scade in termine per presentare i ricorsi. L'Istituto
«Perretta» ne ha stampati a centinaia per contestare
una decisione «amorale e contro la Storia». «Hanno
detto che potevamo scegliere se lavorare o meno - rimarca il ricorrente
Camelliti -. Ma se non lavoravi, venivi ammazzato».
Gli episodi più cruenti
Una notte fui picchiato fino a svenire
L'incubo di Peppino Camelliti è cominciato molto prima di
arrivare a Kahla. Le torture iniziarono subito dopo la partenza
da Firenze, il 18 settembre '43, sul convoglio che lo stava conducendo
in Germania. «Eravamo in condizioni pessime, sdraiati per
terra come animali. All'improvviso, verso l'una di notte, abbiamo
sentito aprire il carro e abbiamo pensato che ci avrebbe fatto uscire
per un po'. Invece una guardia sale sul vagone con 4 militari armati
e
cominciano a picchiarci e parlano tra di loro, ma nessuno capisce.
Un prigioniero di Mantova si ribella e il tedesco lo punta con la
pistola. Spara, ma il colpo non parte. Allora due lo tengono fermo
e il terzo gli cava un occhio con le mani». Un'altra volta
ricevette così tante botte da perdere i sensi. «Lavoravo
in una fabbrica di motori di carri armati a Nordhausen - spiega
-. Durante il turno di notte il mio vicino di macchina, un bergamasco,
mi disse che aveva visto qualcosa da mangiare vicino al bagno».
Erano rape, i due tentarono di impossessarsene, ma furono sorpresi.
Seguì una punizione terribile: «La guardia mi fa mettere
con la testa su uno sgabello e mi frusta dopo avermi fatto togliere
i pantaloni. Ho contato le cinghiate fino a 6, ma poi sono svenuto
e non so cosa sia successo». Per colazione ricevettero quattro
fichi secchi in faccia.
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