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Articolo apparso su "La Provincia di Como" di mercoledì 21 Febbraio 2001

Storie: Una ricerca liceale finisce in una maniera inedita: ieri consegna di 750 euro a testa per "cancellare la vergogna"

GLI STUDENTI "PAGANO" GLI EX INTERNATI
Una scuola tedesca ha risarcito due comaschi schiavi di Hitler

di Pietro Berra

"Volerci bene è bello". E’ la frase con cui Aldo Moscatelli, classe 1921, internato militare italiano sfruttato nelle fabbriche del Terzo Reich, si congeda dal professore tedesco Bernhard Lehmann, che gli ha appena consegnato una busta con 750 euro, simbolico risarcimento per le angherie subite sessant’anni fa, messo assieme da una classe di 25 studenti del liceo "Paul Klee" di Gersthofen, una cittadina tra Augsburg e Dachau.

Ieri, nella sede dell’istituto di storia contemporanea "Pier Amato Perretta", quella che era cominciata nel 2001 come una ricerca scolastica di un gruppo di volenterosi diciassettenni, si è conclusa con una straordinaria lezione di civiltà.
I ragazzi hanno recuperato tra libri e archivi i nomi degli italiani che furono costretti al lavoro coatto nella loro città e, indignati per le sevizie inflitte loro da Hitler e lo sghetto legale (equipararli ai prigionieri di guerra) con il quale Schroeder nel 2002 li ha esclusi dai risarcimenti della Fondazione "Memoria, responsabilità e futuro", hanno voluto compiere "un gesto simbolico" con l’intento di "chiedere scusa per le sofferenze causategli dalla Germania".
"E’ una storia incredibile e commovente", afferma Maura Sala, consigliere dell’Istituto "Perretta" che ha fatto da interprete tra il docente teutonico, l’ex deportato canturino Moscatelli e il nipote di un altro, Angelo Marelli di Noverate, che ha 84 anni e una salute che non gli ha permesso di intervenire di persona. E’ una storia da film. Ci limitiamo a raccontare le scene clou. Come quando il sindaco di Gersthofen si rifiutò di fare accedere gli studenti alla documentazione relativa agli ex internati e persino di lasciargli vedere le tombe di alcuni russi che ci avevano rimesso la pelle. Il professor Lehmann lo trascinò in tribunale e vinse la causa, ma il primo cittadino se la legò al dito e non volle ricevere in municipio cinque lavoratrici coatte ucraine caparbiamente rintracciate dai ragazzi.
Non meno ostile è stato l’atteggiamento della Igs, l’industria chimica da cui dipende lo stabilimento Transehe di Gersthofen dove furono impiegati cento schiavi di Hitler italiani. "Abbiamo chiesto al manager – riferisce Lehmann – di dare un compenso ai due con cui siamo riusciti a metterci in contatto. “Ho già dato soldi alla Fondazione, ci ha risposto, non posso darli ai due Imi, altrimenti creo un precedente. Per noi il caso è chiuso”. E’ una vergogna, solo le vittime possono permettersi di dichiarare chiusa la vicenda". Anche stavolta gli studenti non si sono persi d’animo.
Qualche famiglia era contraria all’iniziativa del professore, ma un nucleo di 5 – 6 fedelissimi ha trascinato gli altri. Lo scorso 28 febbraio hanno organizzato uno spettacolo di cabaret benefico, con il quale sono stati raccolti 20mila euro. Finora sono serviti per risarcire una ventina di “schiavi” ucraini e i due comaschi.
Doppio colpo di scena finale: ieri mattina, grazie ad alcuni documenti portati dal nipote, si è scoperto che Marelli fu internato in Sassonia e dunque è un omonimo di quello di Gersthofen, ma Lehmann gli ha dato comunque l’indennizzo”, sottolineandone il valore simbolico.

Infine nessuno dei due beneficiari ha accettato i soldi: Marelli li devolverà all’Unicef, Moscatelli alla vittima di un’altra guerra, molto più vicina nel tempo. La popolazione irachena.


SCHIAVI DI HITLER - L’OLOCAUSTO ITALIANO
"L’Olocausto italiano", così Ricciotti Lazzero, compianto presidente dell’Istituto "Perretta", definiva la tragedia dei 640.00 soldati rastrellati dai tedeschi dopo l’8 settembre del’43 e costretti al lavoro coatto nelle fabbriche del Terzo Reich. 50.000 non fecero più ritorno. Di recente la Germania li ha esclusi dagli indennizzi per gli “schiavi di Hitler”, equiparandoli ai prigionieri di guerra, anche se il dittatore non gli riconobbe questo status proprio per poterli sfruttare. "Lavoravo sette giorni su sette per preparare della cera che dicevano servisse per rivestire le bombe – ha raccontato ieri Aldo Moscatelli. Tiravamo avanti con una zuppa che era acqua sporca di cavoli e patate".

 

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