Documenti: Storia
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Luigi Cajani
Università di Roma "La Sapienza"
GLI ALLEATI E LA MANCATA ASSISTENZA AGLI INTERNATI
MILITARI ITALIANI (*)
"I miei Ufficiali ed io chiediamo
di conoscere quale è esattamente
la nostra posizione giuridica.
Chiediamo di conoscere il
significato giuridico della nostra
denominazione di Internati
Militari; in modo particolare
chiediamo di conoscere se abbiamo
diritto alla applicazione delle
Convenzioni internazionali sul
trattamento del Prigioniero di
Guerra e se godiamo del diritto
alla protezione della Croce Rossa
Internazionale.
Il Colonnello ha risposto:
"Voi non siete Prigionieri di
Guerra, siete Internati Militari.
Non sono applicate, nei vostri
confronti, le Convenzioni
Internazionali. Non avete la
protezione della C.R.I.: avete la
protezione del Reich... Siete in
Germania!"
Le ultime parole vengono
pronunciate col tono di dire: '
Non siete fra gli Zulù!'. E
veniamo congedati".
(Giuseppe de Toni, Non
vinti. Hammerstein, Stalag II B,
Brescia, Editrice La Scuola, 1980.pp.77-78)
II problema degli Imi rappresentò per il
Comité International de la Croix-Rouge (CICR) - nonostante
gli sforzi incessanti - uno degli insuccessi maggiori nell'attività
di soccorso svolta durante la seconda guerra mondiale. Questo insuccesso
fece mancare agli IMI un aiuto che avrebbe certamente alleviato
gran parte delle loro sofferenze per fame e per freddo, ed avrebbe
abbassato il loro tasso di mortalità, che fu di gran lunga
il più alto fra quelli degli altri prigionieri di guerra
occidentali in mano tedesca (1)
. Gli ostacoli che bloccarono le iniziative del CICR vennero sia
da parte della Germania e dei repubblichini, sia da parte degli
Alleati. E se ai primi va certamente la responsabilità originaria
della mancata assistenza agli internati, perché decisero
di non considerarli prigionieri di guerra sottraendoli così
alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929, i secondi tuttavia
si rifiutarono di fornire al CICR i mezzi per un'azione di soccorso
informale, non sottoposta alle regole e ai controlli previsti per
i prigionieri di guerra "regolari", ma che comunque era
possibile, tant'è vero che fu attuata dal CICR in favore
di altre categorie non coperte dalla Convenzione di Ginevra, come
i deportati politici. I rapporti fra il CICR e le autorità
tedesche e repubblichine sono già stati ricostruiti nei dettagli
(2):
le pagine che seguono saranno perciò dedicate all'esame della
politica alleata nei confronti degli internati. OK!!!!
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Fin dall'inizio il CICR si rese conto che l'armistizio
italiano poneva problemi particolari, sia per il gran numero di
prigionieri fatti in poco tempo dai tedeschi, sia per l'incertezza
del loro stato giuridico. Perciò prese subito l'iniziativa
di interpellare le autorità tedesche per ottenere una definizione
della loro situazione. Il CICR, per parte sua, sosteneva che i militari
e i civili italiani catturati avrebbero dovuto beneficiare del trattamento
previsto dalla Convenzione di Ginevra, e di conseguenza chiedeva
ai tedeschi di comunicargli i loro nominativi, di permettere che
i loro campi venissero visitati dai delegati del CICR e di permettere
la distribuzione di viveri e altri generi di soccorso (3).Le
prime reazioni dell'Oberkommando der Wehrmacht (OKW) e dell'Auswaertiges
Amt, agli inizi di novembre, non furono scoraggianti: l'OKW fece
sapere che gli italiani venivano trattati come i prigionieri di
guerra francesi, per quanto riguardava la corrispondenza e l'invio
di pacchi individuali (due al mese, del peso di 5 kg ciascuno),
che erano autorizzati a spedire le cartes de capture e che il CICR
avrebbe ricevuto presto le liste nominative complete (4).
Il punto più delicato, quello che riguardava l'autorizzazione
alla visita dei campi da parte dei delegati del CICR, venne discusso
dal capo della delegazione del CICR a Berlino, Marti, con un funzionario
dell'Auswàrtiges Amt, Haendler, che invitò il CICR
a fare una richiesta ufficiale per iscritto (5).
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Una risposta interlocutoria, dunque, che tradiva
probabilmente l'indecisione dei tedeschi su questo punto: ma Marti,
riferendo a Ginevra, si mostrava ottimista. Durante questi primi
contatti lo stato giuridico degli italiani in mano tedesca non era
stato esplicitamente trattato: ma le prime cartes de capture arrivate
a Ginevra (85.000 a tutto il 18 novembre), mostravano che gli italiani
non erano considerati formalmente prigionieri di guerra: sulla maggior
parte di esse, infatti, la dicitura Kriegsgefangene era stata cancellata
e sostituita con Mil. Int,cioè Militaerinternierte (6).
E' qui necessario aprire una parentesi su questa qualifica di internati
militari, perché è al tempo stesso uno dei nodi centrali
della vicenda ed uno dei meno chiari, per la mancanza di fonti esplicite.
Questa denominazione fece la sua comparsa ufficiale il 24 settembre,
su espresso ordine del Fuehrer (7):
fino ad allora i militari italiani catturati erano sempre stati
definiti Kriegsgefangene. La figura giuridica dell'internato militare
esisteva già nel diritto internazionale, e indicava quei
militari di paesi belligeranti i quali, trovandosi in un paese neutro,
venivano disarmati e posti sotto custodia dalle autorità
di quest'ultimo, affinché non potessero intraprendere azioni
belliche (8).
Questa locuzione non aveva dunque nulla a che vedere con la situazione
dei militari italiani, e non è ben chiaro perché la
scelta sia caduta proprio su di essa, stravolgendone il significato
corrente, invece di inventarne una del tutto nuova. Al di là
del problema semantico, è comunque importante capire quale
fossero le intenzioni delle autorità tedesche e dei repubblichini,
che probabilmente non furono estranei a questa operazione di redenominazione:
Mussolini stesso, infatti, inquei giorno fra il 12 e il 23 settembre
si trovava in Germania, cercando di riorganizzare il nuovo regime,
in stretto contatto con i vertici nazisti.
Per i tedeschi l'obiettivo principale era mettere
a lavorare quanto prima tutti i militari italiani catturati (un
serbatoio di manodopera su cui avevano messo gli occhi fin dalla
sera del 25 luglio) (9),
impegnandoli in particolare nell'industria bellica, che in quel
momento aveva urgente bisogno di braccia. Per far questo era però
necessario eludere la Convenzione di Ginevra, che proibiva espressamente
questo tipo di impiego dei prigionieri (10).
Il caso degli italiani poteva sotto certi punti di vista essere
avvicinato a quello dei prigionieri francesi: in quel caso la Convenzione
di Ginevra era stata aggirata "persuadendo" il governo
di Vichy ad autoproclamarsi, il 16 novembre 1940, Potenza Protettrice
al posto degli USA (11),
mentre questo ruolo, secondo l'art. 86 della Convenzione di Ginevra,
avrebbe dovuto essere ricoperto da uno stato neutrale (12).
In tal modo tutte le questioni relative ai prigionieri di guerra
(non solo il loro impiego lavorativo, ma il rimpatrio e così
via) diventavano oggetto esclusivo di rapporti bilaterali fra i
due stati "amici", senza alcun controllo di carattere
internazionale. I militari francesi avevano comunque mantenuto ufficialmente
lo status di prigionieri di guerra, almeno fino ai primi mesi del
1943, quando cominciò la loro parziale trasformazione in
lavoratori civili, con tanto di contratto di lavoro (13).
Ciò significava che potevano essere visitati dai delegati
del CICR e ricevere aiuti alimentari e d'altro genere non solo dalla
Francia occupata e da quella sottoposta al governo di Vichy, ma
anche da altri paesi sottoposti al blocco da parte degli Alleati.
Inoltre nei primi tempi della loro prigionia i francesi vennero
quasi tutti impiegati nell'agricoltura, e il loro impiego in attività
proibite - comunque limitato - poteva facilmente sfuggire ai delegati
del CICR, i cui giri di ispezione non erano comunque molto frequenti
e che dovevano sottostare a molte restrizioni e controlli (14).
Diversa era invece la situazione degli italiani, destinati ad essere
immessi subito e in massa nell'industria metalmeccanica e mineraria,
a fianco e al posto dei russi, la cui mortalità era piuttosto
elevata (15):
era dunque utile, per i tedeschi, tenerli totalmente lontani dagli
occhi dei delegati del CICR e quindi degli Alleati, e l'adozione
di una qualifica diversa da quella di prigionieri di guerra serviva
bene a questo scopo. La qualifica di internati militari - il cui
significato, per quanto non chiaro, indicava comunque agli occhi
dei repubblichini uno status privilegiato rispetto a quello di prigionieri
di guerra (16)-
veniva incontro anche agli interessi della neonata Repubblica di
Salò, che aveva nei confronti dei tedeschi ambizioni assai
maggiori di quella di Vichy. Mussolini voleva infatti reclamare
una continuità con il regime rovesciato il 25 luglio, e riprendere
il suo posto di alleato, anche sul piano militare, dopo la breve
parentesi del tradimento di Badoglio e del re. Sia lui che altri
gerarchi si facevano molte illusioni sull'atteggiamento degli IMI
nei confronti della RSI, e contavano che in gran numero si sarebbero
arruolati nel nuovo esercito repubblicano: il che avrebbe notevolmente
risollevato il loro prestigio e il loro peso politico di fronte
ai tedeschi (17).
Questo progetto non incontrò molto favore presso i tedeschi:
se l'Auswaertiges Amt si mostrava abbastanza disponibile, l'OKW
diffidava esplicitamente delle "Badoglio-truppen", e il
ministro degli armamenti, Speer, fremeva perché gli internati
venissero messi senza indugio a lavorare. Quando poi i propagandisti
repubblichini giunsero nei campi ottennero solo massicci rifiuti
da parte degli internati, il che non fece che confermare le diffidenze
dei tedeschi. II progetto venne perciò definitivamente lasciato
cadere alla fine del febbraio 1944.
Torniamo ora all'attività diplomatica del
CICR. Nell'attesa di chiarimenti da parte della autorità
tedesche/ che tardavano ad arrivare, esso nel novembre 1943 cominciò
a prendere contatti con i governi del Canada, del Sud Africa, degli
Stati Uniti e della Gran Bretagna per sondare la loro disponibilità
ad intervenire in aiuto degli IMI, di cui già si cominciavano
a conoscere le difficoltà, sia dal punto di vista alimentare
che del vestiario (molti internati, infatti, avevano solo l'uniforme
estiva che indossavano al momento della cattura). Era necessario
muoversi sollecitamente, perché il governo Badoglio aveva
fatto sapere di non avere mezzi per aiutare gli internati (18),
e perché l'organizzazione delle spedizioni di generi di soccorso
dai paesi d'oltremare era molto laboriosa a causa delle restrizioni
provocate dal blocco imposto dagli Alleati (19).
Le autorità inglesi si mostrarono subito
piuttosto restie ad accettare le proposte del CICR. In particolare
il Ministry of Economica Warfare, che a Londra coordinava l'attività
degli altri organismi alleati preposti al blocco, e il Foreign Office
sollevarono una serie di difficoltà, che troviamo sintetizzate
in una lettera inviata il 14 gennaio 1944 dal Dominions Office al
rappresentante canadese a Londra. Una prima serie di obiezioni considerava
improponibile l'invio di aiuti nei seguenti casi: in primo luogo,
se gli italiani erano tenuti prigionieri in paesi, come la Grecia,
che avevano in precedenza occupato e che ora erano sottoposti al
blocco alleato; in secondo luogo, se c'erano prigionieri alleati,
per esempio francesi, che ricevevano aiuti in misura minore di quella
prevista per gli italiani; e, in terzo luogo, se gli italiani a
cui erano destinati questi aiuti non si erano guadagnati lo status
di prigionieri di guerra per essere stati effettivamente catturati
mentre combattevano contro i tedeschi. Questa categoria comprendeva
esclusivamente quei pochi cobelligeranti che erano stai fatti prigionieri
sul fronte italiano, e quelli catturati nelle isole dell'Egeo, dove
avevano fra l'altro combattuto a fianco degli inglesi. La totalità
degli IMI veniva dunque esclusa da ogni ipotesi di aiuto. Significativamente,
infatti, l'autore della lettera notava che non era ancora chiaro
se i tedeschi consideravano tutti i militari italiani come prigionieri
di guerra, ma anche nel caso che lo avessero fatto, sottolineava,
"sarebbe stato necessario trovare un qualche modo per distinguere
fra le varie categorie di prigionieri" (20).
C'era poi un secondo ordine di difficoltà,
dovute al fatto che con tutta evidenza gli italiani erano sparpagliati
in unità di lavoro che potevano sfuggire al controllo dei
delegati del CICR. E quand'anche queste difficoltà fossero
state sormontate, c'erano sempre i problemi del reperimento delle
merci, del loro trasporto e del loro pagamento in valuta straniera.
Ma di tutto questo, si concludeva, si sarebbe riparlato più
concretamente quando si fosse conosciuto quale status avevano attribuito
i tedeschi ai militari italiani (21).
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Da tutta la corrispondenza intercorsa in questo
periodo fra i vari organi ufficiali inglesi interessati appare chiaro
che, fra tutte queste difficoltà di ordine tecnico e politico,
quella fondamentale era che si voleva limitare l'aiuto ai soli militari
italiani cobelligeranti (22). E' importante sottolineare questa
scarsa sollecitudine, quando non si trattava di vera e propria ostilità,
da parte inglese nei confronti degli IMI, che nasceva dal fatto
che si vedevano in essi soprattutto dei militari ex nemici: più
o meno forte, più o meno mitigato da considerazioni di opportunità
politica, questo atteggiamento negativo resterà sempre presente
negli ambienti inglesi, anche se con qualche eccezione, fino alla
fine della guerra. Gli inglesi si rendevano anche conto che questa
loro posizione non era facile da giustificare all'esterno. Osservavano,
ad esempio, che se i tedeschi avessero riconosciuto solo ai cobelligeranti
lo status di prigionieri di guerra non ci sarebbero stati problemi
nel sostenere questa posizione, ma in caso contrario bisognava mettere
in conto l'opposizione del CICR, che probabilmente non avrebbe accettato
tale discriminazione (23). In ogni modo una esatta distinzione
fra le due categorie di militari italiani sembrava loro molto difficile.
La soluzione migliore - cioè quella che li scaricava di ogni
responsabilità diretta - sembrava quella di mettere a disposizione
del governo del regno d'Italia "a certain very limited quantity
of supplies" (24), facendogli presente che gli Alleati speravano
che esso sarebbe stato in grado di distribuirli secondo i criteri
da loro auspicati.
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Trovandosi con pochi generi da distribuire il governo
regio avrebbe avuto tutto l'interesse a farli pervenire soltanto
ai cobelligeranti. In che modo, l'autore di questo ultimo appunto,
Rumbold, un funzionario del Foreign Office, non lo precisava: forse
pensava alla soluzione di pacchi individuali. Comunque, concludeva
tutta la questione era puramente accademica, perché i tedeschi
avrebbero certamente rifiutato di considerare "any Italians"
(quindi, intendeva, anche i cobelligeranti) come prigionieri di
guerra). Nel frattempo i tedeschi, dopo i contati presi a novembre
dal CICR, non avevano dato risposta, sicché il CICR tornò
ad insistere, il 14 gennaio 1944, con una lettera nella quale si
rinnovava ufficialmente all'Auswaertiges Amt la richiesta di inviare
le liste nominative, in modo da poter informare le famiglie, e di
indicare quali internati sarebbero stati arruolati di nuovo o sarebbero
stati impiegati nell'industria bellica, in modo da poter prendere
accordi con le Croci rosse anglosassoni, che si erano già
dichiarate disponibili ad inviare aiuti agli IMI che non rientravano
nelle due categorie predette. Naturalmente, si precisava nella lettera,
era indispensabile che i delegati del CICR potessero visitare i
campi ai quali sarebbero stati inviati gli aiuti (25).
Questa volta la risposta non si fece attendere:
il 26 gennaio Marti veniva convocato presso l'Auswàrtiges
Amt dove Hàndler lo informava ufficialmente della creazione
di un Servizio Assistenza Internati (SAI) presso l'ambasciata italiana
a Berlino, che si sarebbe assunto il compito dell'assistenza agli
IMI. Ciò escludeva qualsiasi visita dei campi da parte di
delegati del CICR, proprio perché tutta la questione degli
IMI era di esclusiva competenza italo-tedesca, mentre un intervento
del CICR l'avrebbe spostata su un piano internazionale.
Marti aveva insistito sul fatto che questo intervento non aveva
un carattere politico, ma che era tecnicamente indispensabile, perché
gli Alleati per regola non inviavano aiuti se il CICR non assicurava
- come avveniva per tutti i prigionieri - il controllo sulla loro
distribuzione. Ma il suo interlocutore non aveva ceduto, ed aveva
semplicemente prospettato l'ipotesi che, in alternativa, il controllo
fosse effettuato da delegati della Croce rossa italiana del Nord.
In colloqui separati con i funzionari repubblichini Marti aveva
riaperto il problema, ed aveva trovato in loro un atteggiamento
meno rigido: nel caso che i paesi donatori non si fossero accontentati
del controllo della CRI, avevano detto, si sarebbe potuta ridiscutere
la questione. Non prima però che il SAI avesse assunto completamente
la gestione della questione (26). Probabilmente questo atteggiamento
si spiega col fatto che il SAI al momento esisteva ancora solo sulla
carta, e che i suoi responsabili non sapevano ancora se sarebbero
stati in grado di assistere gli IMI con le sole loro forze. Al di
là delle incertezze, comunque, la maggioranza dei funzionari
repubblichini, in primo luogo l'ambasciatore a Berlino Anfuso, ritenevano
di grande importanza dal punto di vista propagandistico che gli
IMI fossero assistiti solo dalla Repubblica sociale.
In successivi contatti Marti rilevò un ammorbidimento
da parte dei tedeschi: l'OKW dichiarò di non avere nessuna
obiezione nei confronti delle visite dei delegati, e anche l'Auswaertiges
Amt sembrava voler lasciare la soluzione della questione ai funzionari
del SAI. Perciò, pur non ottenendo ancora nulla di concreto.
Marti contava su un esito positivo delle trattative (27).
Il CICR si attenne dunque a questa prospettiva,
nelle trattative con gli Alleati, cercando di persuaderli ad iniziare
una raccolta di generi di soccorso, in modo che fossero già
pronti nel momento in cui i tedeschi avessero concesso l'autorizzazione
sperata, e si evitassero ulteriori perdite di tempo, perché
le informazioni che arrivavano sulla situazione degli IMI erano
sempre più drammatiche (28).
Da parte degli USA giungevano fra l'altro segnali
incoraggianti sulla disponibilità ad intervenire a favore
degli IMI. Agli inizi di marzo, infatti, un rappresentante della
Croce rossa statunitense a Ginevra, James, chiese un colloquio con
due alti funzionari del CICR, Burckhardt e Ruegger, facendo sapere
che la sua organizzazione era intenzionata ad intervenire in aiuto
degli IMI, e voleva sapere se i delegati del CICR erano stati autorizzati
a visitare i campi. I suoi interlocutori gli presentarono la situazione
in maniera piuttosto positiva, dicendo che, se all'inizio i tedeschi
sembravano escludere che lo status degli IMI potesse essere paragonato
a quello dei prigionieri di guerra, in quanto la loro sorte era
di competenza esclusiva delle autorità fasciste repubblicane,
negli ultimi tempi c'era stata un'evoluzione del loro atteggiamento,
verso un'assimilazione di fatto del loro status a quello di prigionieri
di guerra, in particolare per quello che riguardava la corrispondenza
e il diritto di ricevere pacchi individuali: un diritto, precisavano,
piuttosto teorico per la stragrande maggioranza di loro, perché
le condizioni economiche dell'Italia settentrionale erano molto
precarie, e perché le comunicazioni con l'Italia meridionale
erano interrotte (29). Per quanto riguardava le visite ai campi,
le ultime notizie inviate da Marti mostravano che egli aveva potuto
vedere degli italiani nei campi, e ciò faceva sperare che
sarebbe stata accordata un'autorizzazione generale. Nel frattempo
era opportuno cominciare a raccogliere generi di soccorso. Ruegger
aveva suggerito che il CICR avrebbe potuto mandare all'uopo una
nave in America del Sud, appena fossero stati concessi i necessari
navicerts, e James aveva dal canto suo fatto presente che altri
aiuti sarebbero potuti venire dall'America del nord, grazie ai contributi
delle numerose comunità italiane (30).
E' interessante notare che gli americani - pur continuando ad insistere,
come tutti gli Alleati - sulle visite dei delegati del CICR come
conditio sine qua non per far giungere gli aiuti agli IMI, mostravano
una sicura disponibilità ad aiutarli, il rappresenta, rispetto
all'atteggiamento di chiusura da parte inglese, un'importante differenziazione,
che risulterà ancora più evidente in seguito (31).
Le speranze del CICR su una rapida evoluzione positiva
dell'atteggiamento dei tedeschi durarono ancora per poco: mentre
ai militari italiani cobelligeranti veniva ufficialmente riconosciuto
lo status di prigionieri di guerra, con l'autorizzazione esplicita
delle visite da parte dei delegati del CICR (32), gli IMI continuarono
ad esserne esclusi (33). La situazione era dunque bloccata, perché
la posizione ufficiale degli Alleati restava la stessa: nessuna
iniziativa finche i tedeschi non avessero autorizzato le visite.
A questo punto il CICR, pur continuando instancabilmente le trattative
a Berlino, decise di cambiare strategia, per cercare di arrivare
comunque a soccorrere gli IMI seguendo vie meno ufficiali. Per fare
questo era però necessario forzare un cambiamento unilaterale
della posizione degli Alleati, e il metodo scelto fu quello di un
intervento diretto ad alto livello. Burckhardt il 28 marzo scrisse
dunque personalmente al Ministro degli esteri inglesi. Eden, una
lettera in cui riassumeva le trattative fino ad allora intercorse
coi tedeschi, ammettendo che al momento non presentavano sbocchi
positivi, ed esponeva crudamente la gravissima situazione alimentare
e sanitaria degli IMI. A questo punto, affermava, il problema andava
considerato esclusivamente in termini umanitari, ed invitava il
governo inglese e quello americano ad autorizzare il governo del
Regno d'Italia (col quale erano già stati presi contatti)
ad acquistare viveri nei paesi alleati e ad affidarli al CICR, che
avrebbe provveduto a farli arrivare agli IMI (34).
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In che modo, Burckhardt non lo precisava, con un'omissione
piena di sottintesi, tipicamente diplomatica. Sostanzialmente egli
chiedeva agli alleati di fidarsi del CICR senza pretendere i consueti
controlli e garanzie. Naturalmente il CICR, per parte sua, non intendeva
abdicare completamente ad ogni controllo sulla distribuzione di
questi aiuti, affidandoli ciecamente al SAI, come pretendevano tedeschi
e repubblichini. Le vie praticabili per mantenere il controllo degli
invii di soccorsi erano al momento tre: servirsi della Nunziatura
apostolica a Berlino, con cui il CICR era già in contatto
per la distribuzione di alcuni soccorsi inviati agli IMI a spese
del Vaticano (35); oppure ottenere dal SAI una presenza discreta
e ufficiosa dei delegati del CICR nei campi, come contropartita
della distribuzione congiunta dei soccorsi procurati dal CICR; o
infine servirsi dei fiduciari dei prigionieri di guerra delle altre
nazioni, che già infatti in alcune circostanze avevano fatto
da intermediari ufficiosi fra il CICR e gli IMI. Il Foreign Office
non si lasciò particolarmente scuotere dalla pressante lettera
di Burckhardt, e decise di aspettare comunque che fosse il governo
del Regno d'Italia a prendere contatto coi governi alleati per discutere
la questione.
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E in tal senso venne risposto a Burckhardt, con
una lettera asciutta in cui non si prendeva nessun impegno, ma neppure
si assumeva una posizione negativa a priori (36). In effetti negli
ambienti del Foreign Office stava emergendo allora una qualche disponibilità,
ancorché molto generica, all'assistenza agli IMI, perché
il fondamentale pregiudizio negativo nei loro confronti veniva corretto
da altre considerazioni politiche più ampie. E così,
nel trasmettere al Ministry of Economic Warfare e alla Treasury
la lettera di Burckhardt per sapere quale fosse il loro punto di
vista, il Foreign Office faceva osservare che, nonostante si rendesse
conto delle difficoltà che insorgevano sia dal punto di vista
delle regole del blocco che da quello finanziario, che erano appunto
di competenza specifica dei due ministeri destinatari, dal punto
di vista politico riteneva opportuno dareal governo italiano tutto
l'aiuto possibile: "Nonostante che gli internati - si scriveva
- siano presumibilmente persone che fino a poco tempo fa erano pronte
a combattere contro di noi o ad opprimere i nostri alleati, essi
si trovano in una situazione in cui nessuno può aiutarli
fuorché noi, e probabilmente si può fare molto con
uno sforzo relativamente piccolo. Se noi interveniamo, il governo
italiano ne guadagnerà in prestigio, il che torna a nostro
vantaggio: ma se noi ci rifiutiamo, saremo noi ad essere accusati,
quando i superstiti torneranno in Italia" (37).
Non abbiamo i commenti dei due ministeri interessati
su questa lettera di Burckhardt. Conosciamo invece quella della
Croce Rossa Britannica, che pure ne ricevette una copia dal Foreign
Office, e che reagì in maniera decisamente negativa: "Non
riesco proprio a capire - scriveva il 12 maggio Miss Warner, direttore
del Foreign Relations Department - perché egli /Burckhardt/
sembri pensare che il CICR possa mandare dei pacchi di soccorso
acquistati dalle nazioni alleate, dal momento che nella prima parte
della sua lettera appare chiaro che essi non sono in grado di adempiere
alle indispensabili condizioni della visita ai campi. A meno che
non siano intervenuti cambiamenti, questa è una delle regole
fondamentali del nostro blocco..." (38).
Il CICR nel frattempo non desisteva dalle trattative
a Berlino, caratterizzate da un'alternarsi di aperture e di chiusure,
che riflettevano evidentemente i complessi e contraddittori rapporti
fra tedeschi e repubblichini e, soprattutto, l'indecisione di questi
ultimi nel gestire il problema degli IMI. Il CICR contava molto
sull'interesse che anche i tedeschi avevano a far giungere aiuti
agli internati, per migliorarne la produttività, e cercava
di far pressione su di loro, sfruttando il fatto che il SAI non
era ancora riuscito a combinare nulla (39).
L'11 maggio Marti si recò di nuovo all'Auswaertiges
Amt: in un lungo colloquio col Generalkonsul von Drueffel e con
Haendler affermò che il CICR era in grado di venire in aiuto
agli IMI con viveri provenienti d'oltremare, cioè dalla zona
sottoposta al blocco degli Alleati, e ciò significava che
la loro distribuzione doveva essere supervisionata dai suoi delegati.
Ancora una volta minimizzò il ruolo dei delegati ribadendo
che le loro visite avevano un carattere essenzialmente formale e
che le loro visite si limitavano a contatti con i fiduciari delle
varie nazionalità, con i quali esaminavano solo quanto riguardava
la distribuzione dei soccorsi, senza entrare, come invece temevano
i suoi interlocutori, in altre questioni, quali ad esempio l'impiego
lavorativo dei prigionieri. Al che i due funzionar! tedeschi avevano
risposto che in linea di principio le visite dei delegati del CICR
avrebbero dovuto essere escluse, perché solo il SAI doveva
occuparsi degli IMI: ma visto il carattere umanitario dell'intervento
del CICR, si sarebbe potuta fare un'eccezione, e che ne avrebbero
discusso con le autorità italiane, alle quali comunque -
dissero - spettava la decisione finale. Marti usci da questo incontro
pieno di speranze: "L'Auswaertiges Amt sembra esservi nettamente
favorevole, e continuiamo a credere che questa faccenda sia sul
punto di risolversi" (40), commentava nel suo rapporto a Ginevra,
anche se, continuava, potevano esserci delle difficoltà da
parte italiana per quanto riguardava la confezione dei pacchi, che
secondo loro non avrebbero dovuto in alcun modo tradire la loro
provenienza da parte degli Alleati. Marti contava evidentemente
sulla subalternità dei repubblichini ai tedeschi, per avere
partita vinta. Non aveva naturalmente torto, per quanto riguardava
in generale i reali rapporti di forza fra i due alleati, ma proprio
in quel momento si produssero importanti cambiamenti, che su questa
particolare questione diedero nuova forza contrattuale ai repubblichini.
Infatti il SAI, che, come si è detto, era stato fino ad allora
un'assoluta nullità, venne affiancato dalla Croce Rossa Italiana
del Nord, nella speranza che la struttura organizzativa di quest'ultima
migliorasse le cose (41). Il delegato generale della CRI in Germania,
De Luca, si recò quindi il 14 maggio insieme a Haendler presso
la sede dello Chef des Kriegsgefangenenwesens, a Torgau, dove incontrò
il capitano Laaser, responsabile dei campi IMI. L'inserimento della
CRI nel SAI venne accolto con favore dagli interlocutori tedeschi,
che garantirono tutto il loro appoggio. Ma non ritenevano, probabilmente,
che avrebbe prodotto un cambiamento decisivo. Laaser dichiarò
infatti che la gravità della situazione degli IMI esigeva
che non si lasciasse cadere l'offerta di aiuto da parte del CICR.
In proposito aveva affermato testualmente che "di fronte alle
liste dei morti e a quelle anche spaventose della tubercolosi, noi
dobbiamo prendere in esame, se pure /sic/ con le dovute cautele,
ogni e qualsiasi aiuto che ci venga offerto" (42).
Pertanto i tedeschi pensavano di proporre al CICR di far pervenire
i suoi pacchi agli IMI tramite la CRI, che gli avrebbe poi trasmesso
le regolari ricevute. De Luca era rimasto "molto perplesso",
come lui stesso scriveva ad Anfuso, di fronte a questo interesse
delle autorità tedesche verso il CICR, e ben sapendo che
Anfuso era contrario, per ragioni di propaganda, all'intervento
del CICR, non aveva detto né si né no, in attesa di
ulteriori istruzioni. Comunque lo invitava a riprendere in esame
la cosa, "salvo a rifiutare l'aiuto, quando lo stesso non venisse
dato nelle norme e coi mezzi che garantiscano l'estromettezza da
ogni influenza a carattere politico e propagandistico" (43).
Ma Anfuso rimase fermo nel suo diniego (44).
Alla fine di giugno, peraltro, Anfuso sarebbe divenuto
più possibilista e avrebbe sostanzialmente accolto il punto
di vista dei tedeschi. Vaccari, capo del SAI, gli faceva infatti
osservare che "l'avanzata delle truppe nemiche in Italia e
l'intensificarsi dei bombardamenti creano gravi preoccupazioni in
merito all'avviamento dei vagoni contenenti il soccorso materiale
dall'Italia" (45), e quindi lo invitava a riconsiderare il
problema dei rapporti col CICR, per ottenere, fra l'altro, l'invio
di pacchi familiari dall'Italia centro-meridionale.
Quest'ultima possibilità gli era anzi stata suggerita - precisava
- proprio dall'Auswaertiges Amt. Anfuso si dichiarò disposto
ad accettare che i soccorsi forniti dal SAI, che - sottolineava
significativamente - dovevano essere la base dell'aiuto ricevuto
dagli IMI, potevano essere integrati da pacchi forniti al SAI dal
CICR tramite le autorità tedesche: purché questi pacchi
recassero soltanto etichette del CICR, alle quali andavano aggiunte,
prima della distribuzione, quelle del SAI: "Nessuna rinuncia
pertanto - ribadiva Anfuso - alle nostre funzioni di Potenza Protettrice,
nessuna idea, cioè, che l'Italia abbandoni gli internati
italiani in Germania, lasciandoli senza tutela" (46). Insomma,
secondo Anfuso l'aiuto "esterno" agli internati per non
danneggiare la propaganda non solo non doveva recare etichette nemiche,
ma non doveva neppure essere quantitativamente prevalente rispetto
a quello fornito dalla RSI.
Appare dunque chiaro che i tedeschi, sia negli
ambienti diplomatici che militari, si preoccupavano essenzialmente
di un miglioramento della situazione alimentare degli IMI, perché
questo avrebbe significato un aumento della loro capacità
lavorativa, e ciò li portava ad essere più disponibili
nei confronti del CICR. I repubblichini al contrario erano molto
più sensibili alle implicazioni politiche dell'azione assistenziale,
e temevano che il governo di Salò avrebbe subito un'ulteriore
perdita di credibilità agli occhi degli internati se questi
avessero ricevute pacchi recanti etichette alleate. L'entrata in
scena della CRI, a fianco dell'inefficiente SAI, e l'arrivo dei
primi vagoni di soccorsi dall'Italia del Nord proprio in quel mese
di maggio convinsero evidentemente i tedeschi a cedere - anche se
non completamente - alle richieste dei loro alleati. Senza aspettare
l'ammorbidimento di Anfuso, i tedeschi esposero la loro nuova posizione
al CICR: Così, nel successivo colloquio che ebbe con Marti
all'Auswaertiges Amt. il 24 maggio, Haendler gli disse che né
il governo tedesco né quello fascista repubblicano potevano
accettare aiuti di provenienza alleata, perché questo equivaleva
a riconoscere gli IMI come nemici. Sarebbero quindi stati accettati
soltanto aiuti provenienti dal CICR, senza alcuna etichetta alleata,
che avrebbero dovuto essere passati alla CRI del Nord, la quale
avrebbe provveduto alla loro distribuzione, con l'eventuale presenza
dei delegati del CICR. Marti gli aveva fatto presente che il CICR
non aveva i mezzi per acquistare viveri sufficienti in Europa, e
che questi non potevano che provenire dagli Stati Uniti: al che
Haendler aveva replicato che capiva benissimo che gli Stati Uniti
non volessero fare un dono anonimo, ma che non c'era niente da fare.
Comunque, aveva significativamente concluso, la situazione degli
IMI stava migliorando, perché stavano arrivando dall'Italia
del Nord i primi treni di soccorsi (47).
La complessa azione diplomatica svolta dal CICR
a Berlino era così arrivata ad un punto morto. Se un problema,
quello delle visite dei delegati, era stato in qualche modo risolto,
ne era sorto un altro, quello delle etichette alleate sui pacchi,
che poneva al CICR nuove difficoltà.
Comunque, nonostante questo momentaneo fallimento, il CICR non abbandonò
la partita diplomatica a Berlino, ed intanto continuò ad
insistere in quelle con gli Alleati, sempre nell'ottica di cominciare
a raccogliere gli aiuti in favore degli IMI, in modo che potessero
essere pronti nel caso che tedeschi e repubblichini cambiassero
idea. |
Fra l'altro alla soluzione di questo problema si
stavano aprendo, proprio in quel periodo, nuove possibilità,
in un contesto completamente diverso, cioè quello dell'aiuto
ai civili detenuti e deportati (48). Nonostante che queste categorie
non fossero protette dalla Convenzione di Ginevra, fin dall'inizio
delle ostilità il CICR era intervenuto presso i tedeschi
per portar loro un qualche aiuto. Naturalmente il governo tedesco
cominciò con l'opporre un netto rifiuto: ciò nonostante
le insistenze del CICR riuscirono pian piano a ottenere i primi
risultati positivi.
Il primo risale all'agosto del 1942, quando i tedeschi autorizzarono
il CICR a fare pervenire piccoli pacchi viveri inviati dalle famiglie
ai detenuti stranieri dei campi di Oranienburg e di Dachau, e a
partire dal febbraio 1943 questa agevolazione venne concessa ai
detenuti degli altri campi e delle prigioni.
Ottenuto questo successo, piccolo ma importante in via di principio,
il CICR insistette per poter spedire lui stesso viveri, vestiario
e medicine nei campi e per controllarne la distribuzione. Nel marzo
del 1943 l'Auswaertiges Amt autorizzò le varie Croci rosse
nazionali e il CICR a spedire pacchi individuali ai prigionieri
di cui conoscevano il nome e l'indirizzo.
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Quest'ultima clausola poteva ridurre a nulla il
valore reale della concessione fatta, perché i delegati del
CICR non erano ammessi nei campi e né la Croce rossa tedesca
né i comandanti dei campi erano autorizzati a trasmettergli
le liste dei prigionieri. II CICR tuttavia riuscì ad aggirare
questa difficoltà procurandosi per vie "ufficiose"
i nomi e gli indirizzi di un certo numero di detenuti e di deportati,
ai quali già dal mese di giugno cominciò ad inviare
i primi pacchi: quasi insperatamente, questi pacchi giunsero ai
destinatari, i quali spesso poterono addirittura rispedire a Ginevra
la ricevuta da loro firmata (49).
Questo successo aumentò le possibilità
di intervento del CICR, perché i detenuti che potevano corrispondere
con le proprie famiglie gli fecero pervenire, tramite queste, richieste
di aiuto, mentre i nomi di altri deportati gli giunsero clandestinamente.
A questo punto il problema per il CICR non era più quello
di non avere indirizzi di possibili beneficiari, ma di non avere
abbastanza viveri da mandare loro. Si rivolse pertanto agli Alleati
per ottenere invii di viveri in deroga al blocco, perché
anche per gli aiuti ai civili vigeva la regola che sottoponeva l'autorizzazione
all'assicurazione che i delegati del CICR avrebbero potuto visitare
i campi, cosa che i tedeschi non concedevano se noneccezionalmente
(50).
All'inizio gli Alleati si mostrarono riluttanti
a transigere su questo punto, e il CICR dovette provvedere con i
propri mezzi e con l'aiuto di alcuni donatori all'acquisto di derrate
alimentari nell'Europa controllata dai tedeschi, che comunque, indipendentemente
dalla disponibilità finanziarie del CICR, non poteva fornire
viveri in gran quantità. I mesi di giugno e luglio del 1944
furono il momento cruciale delle trattative con gli Alleati. Il
governo statunitense, anche a causa della forte pressione dell'opinione
pubblica interna, era favorevole all'invio diretto di merci, in
deroga al blocco, mentre il governo inglese voleva che il blocco
fosse mantenuto, ed era caso mai disposto a mettere una certa somma
a disposizione del CICR perché acquistasse generi alimentari
all'interno dell'area sottoposta al blocco (51). Entrambi gli alleati
insistevano poi sulle visite del CICR nei campi, ma quest'ultimo
fece presente che pretendere dalle autorità tedesche un'autorizzazione
formale avrebbe voluto dire vanificare tutta l'operazione. Il CICR
chiedeva perciò esplicitamente agli Alleati di dargli piena
fiducia, e di lasciare ai suoi delegati piena discrezionalità
nell'effettuare le visite, assicurando di essere in grado di verificare
in vari modi l'effettiva distribuzione dei pacchi nei pacchi, e
impegnandosi a sospenderne la spedizione qualora avesse constatato
delle irregolarità (52).
Mentre attendeva la decisione degli Alleati, il
CICR continuò con le sole proprie forze l'invio ai civili
di pacchi, contenenti viveri, vestiario e medicinali.
Poi, a partire dall'autunno, gli Stati Uniti cominciarono ad intervenire
massicciamente in loro aiuto (53).
Come si vede, il problema dell'assistenza ai civili
aveva molti punti in comune con quello dell'assistenza agli IMI.
Ed infatti durante una riunione tenuta a Washington fra rappresentanti
del governo statunitense e britannico per esaminare le proposte
del CICR sull'assistenza ai civili, si decise di inserire anche
gli IMI in questo programma di aiuti, naturalmente sempre con la
clausola che i delegati del CICR potessero effettuare le visite.
Nel memorandum che concluse questa riunione, datato 12 giugno, non
si faceva esplicito riferimento agli IMI: gli statunitensi però
Io rammentarono agli inglesi poco dopo, trasmettendo loro - con
un parere favorevole - una richiesta del governo del Regno d'Italia,
riguardante l'invio di pacchi di farina dall'America del Sud (54).
Quasi contemporaneamente il governo inglese riceveva
una nuova pressante lettera in favore degli IMI da parte del CICR.
Burckhardt vi faceva infatti presente che la situazione degli internati,
che già aveva drammaticamente delineato nella sua precedente
lettera del 28 marzo, era ulteriormente peggiorata, e che, secondo
un rapporto della Commissione medica mista, essi sarebbero stati
tutti quanti colpiti dalla tubercolosi nello spazio di un anno.
Di fronte a questa situazione, continuava Burckhardt, e alle pesanti
responsabilità che ciò comportava, alcuni settori
dell'OKW e l'Auswaertiges Amt si mostravano sempre più favorevoli
ad estendere arche agli IMI l'aiuto del CICR, nonostante gli accordi
presi con la RSI. E in effetti il CICR era l'unico organo in grado
di aiutare gli internati, grazie alle informazioni che aveva già
ricevuto e che continuava a ricevere tramite le cartes de capture,
i certificati di decesso e i contatti diretti.
Il CICR chiedeva perciò che gli alleati lo mettessero in
condizione di aiutare gli IMI, perché c'era ragione di credere
che se esso fosse stato effettivamente in grado di garantire ai
tedeschi e ai repubblichini l'aiuto agli internati, sarebbe riuscito
ad ottenere le autorizzazioni necessarie, mentre temeva che, se
si fosse perso dell'altro tempo, le condizioni tecniche, che al
momento erano favorevoli, si sarebbero potute deteriorare rapidamente
ed in maniera irrimediabile (55).
Anche questa volta le reazioni degli inglesi non
furono molto favorevoli.
Wrightson, del Ministry of Economic Warfare, informato dal Foreign
Office di questa nuova lettera di Burckhardt e della proposta statunitense,
sollevava una serie di obiezioni. La prima, ancora una volta, era
che questi italiani internati non erano militari catturati mentre
combattevano al fianco degli alleati in seguito all'armistizio,
ma che, al contrario, avevano "combattuto contro di noi"
in Africa settentrionale. A questa prima obiezione ne seguivano
altre di carattere tecnico: al momento - scriveva Wrightson - c'erano
molte difficoltà nei trasporti verso la Svizzera, ed era
perciò improbabile che si potesse fornire un'assistenza adeguata
finche gli alleati non avessero avuto una frontiera comune con quel
paese. L'unica possibilità sarebbe stata inviare agli IMI
una parte dei pacchi per i prigionieri di guerra alleati che erano
immagazzinati a Ginevra, e Wrightson escludeva che le autorità
americane o quelle britanniche avrebbero accettato una simile proposta
(56). |
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E' opportuno aprire qui una parentesi sul problema
dei trasporti, che gli inglesi mettevano continuamente avanti quando
si trattava di mandare aiuti agli IMI. Si trattava indubbiamente
di un problema serio, perché proprio in quel periodo la linea
Lisbona - Marsiglia - Ginevra, che era il principale canale di rifornimento
di cui si serviva il CICR, si era interrotta, a causa delle operazioni
aereonavali nel Mediterraneo, che avevano anche coinvolto per errore
alcune navi noleggiate dalla Croce rossa britannica, una delle quali
era stata affondata: e questa interruzione sarebbe durata fino al
mese di novembre, a causa dello sbarco alleato in Provenza, che
iniziò il 15 agosto. Ma era comunque prevedibile che presto
o tardi questa linea sarebbe stata rimessa in funzione, tant'è
vero che le merci destinate al CICR continuavano ad arrivare d'oltremare,
e venivano immagazzinate, in attesa di tempi migliori, a Lisbona
e a Barcellona. Del resto il CICR, proprio in previsione di queste
difficoltà, si era adoperato per l'apertura di una nuova
linea che collegasse l'America settentrionale con un porto della
Germania del Nord, con scalo a Goeteborg, che fungeva anche da deposito:
anche questa linea cominciò ad essere attiva nel mese di
novembre (57). |
L'insistenza inglese sulle difficoltà dei
trasporti, se non era dunque del tutto infondata, era certo strumentalmente
esagerata: tant'è vero che in un protocollo congiunto anglo-americano
stipulato a Washington nella seconda metà di giugno sul programma
di aiuto ai rifugiati e ai deportati dei campi di concentramento
il problema dei trasporti era stato affrontato senza però
essere considerato un ostacolo fondamentale (58).
Come si è visto, il risentimento nei confronti
degli IMI era tuttora vivo negli ambienti ufficiali inglesi. E infatti
lo si ritrova costantemente, in termini più o meno crudi,
nella corrispondenza intercorsa fra i vari ministeri inglesi. Ad
esempio il War Office scriveva al Ministry of Economic Warfare il
21 luglio che non era il caso di inviare aiuti agli IMI sia per
problemi tecnici coi trasporti, che inoltre sarebbero probabilmente
peggiorati in futuro, sia perché dopo tutto, "la situazione
in cui noi ci troviamo adesso è in buona parte il risultato
dell'attività delle forze armate italiane" (59). Tutto
questo, si precisava ancora una volta, non riguardava, ovviamente,
i militari italiani cobelligeranti, nei confronti dei quali, fin
dall'inizio, non c'erano state obiezioni.
Anche il Foreign Office, che delle varie branche
dell'amministrazione inglese era quella che si era mostrata relativamente
più elastica sulla questione dell'aiuto agli IMI, questa
volta non si sbilanciò troppo, preoccupandosi soltanto di
mantenere i buoni rapporti con gli americani. Infatti Law, rispondendo
a Wrightson il 25 luglio, confermava senz'altro che non era assolutamente
proponibile di stornare a favore degli IMI una parte dei pacchi
per i prigionieri di guerra alleati immagazzinati al momento a Ginevra.
In linea di principio, continuava poi, il Foreign Office non aveva
obiezioni ad inserire gli IMI nel quadro degli accordi sugli aiuti
ai civili dei KZ e ai rifugiati, "purché essi stiano
all'ultimo posto nella lista dei beneficiari nemici" (60).
E continuava osservando che ciò significava in pratica che
gli IMI non avrebbero ricevuto niente, dato che la quantità
complessiva di aiuti che poteva essere trasportata era molto piccola.
Agli americani, tuttavia, era opportuno dire semplicemente che non
c'erano prospettive di un immediato (61) soccorso agli IMI, dato
che, appunto, stavano in fondo alla lista.
Quest'ultima osservazione, e molti altri indizi
simili, confermano che gli inglesi non facevano troppa pubblicità
al loro risentimento verso gli IMI, ma la cosa dovette trasparire,
come si deduce da una lettera che l'ambasciatore del Regno d'Italia
a Madrid inviò il 28 luglio al suo collega inglese Bowker,
nella quale, chiedeva ancora una volta aiuti per gli IMI, i quali
si trovavano in condizioni tanto tragiche e morivano di fame a centinaia
"perché - precisava significativamente - si erano rifiutati
di schierarsi a fianco dei tedeschi e di combattere contro gli Alleati"
(62). Il non aver aderito veniva dunque presentato come una forma
di resistenza attiva: Bowker assicurò che avrebbe trasmesso
la lettera a Londra, "con la speranza che fosse possibile trovare
un modo per assistere questa gente".
In questo periodo il governo regio, che nei primi
mesi dopo l'armistizio non si era dato molto da fare per soccorrere
gli IMI, iniziò un'azione sistematica a loro favore, sia
col raccogliere per proprio conto viveri, vestiario e medicinali,
sia con una intensa serie di interventi diplomatici presso gli Alleati.
In un primo tempo, non disponendo di sufficienti risorse finanziarie,
si rivolse alle comunità italiane in Argentina e nella penisola
iberica, e chiese al Foreign Office di autorizzare l'invio dei pacchi
così raccolti tramite la Croce rossa britannica (63). Il
Foreign Office appoggiò questa richiesta, e la trasmise al
Ministry of Economic Warfare con un parere favorevole, sottolineando
l'opportunità politica di venire incontro al governo italiano
(64). Il Ministry of Economic Warfare questa volta non fece obiezioni
di principio, ma insistè che, dato l'attuale intasamento
dei porti di Lisbona e Goeteborg era opportuno inviare agli IMI
per il momento solo una piccola quantità di aiuti, che avrebbe
potuto essere aumentata "in misura ragionevole" quando
le scorte accumulate in quei porti fossero state smaltite (65).
Anche se lentamente, dunque, la posizione degli
inglesi si stava ammorbidendo, evidentemente a causa dell'atteggiamento
statunitense. Sempre decisamente ostile restava solo il War Office:
Hopkins in una lettera inviata il 7 settembre a Wrightson si dichiarava
contrario all'invio anche di piccole quantità di aiuti (si
trattava in quel caso di appena 1300 kg di vestiario raccolti a
Lima), finche non fossero state smaltite la maggior parte delle
scorte di aiuti per i prigionieri di guerra (35.000 tonnellate solo
a Lisbona e negli altri porti del Mediterraneo, senza contare quelle
accumulate nei porti sull'altra sponda dell'Atlantico). Tutto ciò,
si precisava nella conclusione, era valido solo nel caso degli italiani
catturati dai tedeschi dopo l'armistizio: se si fosse trattato di
cobelligeranti, avrebbero riesaminato la cosa (66). In una successiva
lettera a Wrightson, del 15 settembre, Hopkins ribadiva seccamente,
con un tono che non ammetteva repliche, la posizione del War Office
sull'assistenza agli IMI, e gli indicava al tempo stesso il modo
per rispondere alle sollecitazioni italiane: "Certamente la
risposta agli italiani dovrebbe esprimere (con opportuni giri di
parole) il nostro rammarico per il fatto che attualmente non ci
sia una via aperta con la Germania per l'invio di aiuti ai prigionieri
di guerra, e proseguire dicendo che, una volta che questa via fosse
riaperta, non ci sarebbe nessuna opposizione di principio ad inviare
una limitata quantità di aiuti ai prigionieri italiani in
Germania, subordinatamente alle difficoltà di trasporto via
mare e di stoccaggio difficoltà che potrebbero rivelarsi
insuperabili per un certo tempo, in considerazione della prolungata
sospensione dell'afflusso di aiuti per i prigionieri inglesi, americani
e delle altre nazioni unite, che hanno la precedenza" (67).
Questa evoluzione della posizione inglese non era
dunque priva di importanti contraddizioni interne: ma soprattutto
essa restava sul piano teorico. Nei fatti gli inglesi non erano
affatto ansiosi per la sorte degli internati, e le loro concessioni
era tanto limitate dal punto di vista quantitativo e tanto vaghe
e remote dal punto di vista temporale da non costituire nessun impegno
concreto e da non rappresentare comunque nessun aiuto efficace.
Ben diverso era l'atteggiamento del governo americano,
che era sollecitato anche dalla necessità di conciliarsi
il favore della potente comunità italo-americana in previsione
delle imminenti elezioni di novembre (68). Il 18 ottobre Miss Camp,
dell'ambasciata americana a Londra, scriveva una lunga lettera a
Wrightson per fare una serie di puntualizzazioni sulla questione
dell'assistenza agli IMI, che, osservava eufemisticamente, "è
diventata un po' confusa". Ella riassumeva perciò dettagliatamente
la corrispondenza intercorsa in proposito fra americani e inglesi
("mi scuso per la lunghezza di questa lettera - scriveva un
po' polemicamente - ma spero che servirà a mettere in chiaro
la nostra posizione"), sottolineando come questi ultimi si
fossero mostrati sostanzialmente d'accordo ad inserire gli IMI nel
programma di assistenza ai detenuti e deportati civili. Ribadiva
perciò la necessità di intervenire in tal senso, ed
in particolare affermava che sia gli IMI che tutti gli altri italiani
in mano tedesca che si trovavano in ospedali in cui erano ricoverati
anche prigionieri di guerra alleati dovevano ricevere gli stessi
soccorsi destinati a questi ultimi (69).
Nel trasmettere questa lettera a Law, Wrightson
insisteva sul fatto che nonostante l'accordo di principio intercorso
con gli americani, non bisognava dimenticare che fino a quel momento
ogni via era preclusa per far arrivare soccorsi agli italiani od
a qualsiasi altro internato. Comunque si associava all'ultima proposta
di Miss Camp, riguardante gli IMI ospedalizzati, perché gli
sembrava che in questo caso i soccorsi sarebbero potuti arrivare
agli italiani senza interferenze da parte tedesca: ed inoltre, concludeva,
un altro buon motivo per accogliere questa proposta era che "se
prigionieri inglesi o americani sono ricoverati in ospedale a fianco
a fianco con gli italiani, e gli americani dividono il loro cibo
con gli italiani, anche gli inglesi si sentirebbero obbligati a
fare lo stesso" (70).
Va notato, in questo ennesimo scambio di vedute
fra inglesi e americani, che questi ultimi non fanno alcun accenno
al problema dei trasporti, che del resto, come si è visto,
era in via di risoluzione: di lì a poco, inoltre avrebbero
cominciato a spedire soccorsi destinati ai civili, tramite il War
Refugee Board, creato a Washington. L'atteggiamento inglese sembra
dunque, per l'ennesima volta, dilatorio. E colpisce, nella lettera
di Wrightson, che uno dei motivi per accettare di inviare aiuti
agli IMI ospedalizzati fosse l'imbarazzo che avrebbe provocato negli
inglesi il "bel gesto" di solidarietà da parte
degli americani.
Uno spiraglio sembrava comunque aprirsi nella rigida
posizione inglese, quando intervenne un fatto nuovo che lo fece
richiudere: la trasformazione degli IMI in lavoratori civili, avvenuta
in seguito agli accordi fra Mussolini e Hitler del 20 luglio (71).
Questo fece pendere la bilancia diplomatica sempre più nettamente
a sfavore dell'assistenza agli internati, non senza però
alcune oscillazioni significative, che confermano quanto si è
già notato sulle differenze di atteggiamento fra americani
e inglesi e fra le varie branche della stessa amministrazione inglese.
A fine agosto il governo del Regno d'Italia informò Londra
della cerimonia con cui in un campo vicino a Berlino, alla presenza
dell'Ambasciatore Anfuso e del sottosegretario agli esteri Mazzolini,
un gruppo di IMI era stato trasformato in lavoratori civili. Questa
trasformazione, si precisava, doveva avvenire su base volontaria,
e non sembrava destinata al successo (72).
In campo alleato non si ebbero informazioni molto
precise sulla portata di questa operazione, che comunque perse subito
il suo carattere volontario, perché i tedeschi, di fronte
alle resistenze degli internati a firmare un impegno a lavorare
per loro, decisero di trasformarli d'autorità in lavoratori
civili (73).
Comunque fu presto chiaro che questa trasformazione non era un fenomeno
limitato, come sembrava all'inizio, ma coinvolgeva la maggior parte
degli internati, il che non poteva non influire notevolmente sul
punto di vista degli alleati. E così anche il governo regio
adeguò alla nuova situazione la sua strategia diplomatica
verso di loro. Il 29 settembre il sottosegretario agli esteri Visconti
Venosta scrisse una lunga lettera a sir Noel Charles, che ricopriva
la carica di British High Commissioner in Italy, ponendo il problema
dell'assistenza agli italiani in Germania su basi nuove, molto più
ampie delle precedenti. Infatti egli non faceva più riferimento
soltanto agli internati, ma anche a coloro che "erano stati
mandati dal Governo fascista come lavoratori coatti per lavorare
nelle campagne e nelle industrie tedesche" (74).: in tutto
si trattava di oltre un milione di uomini, le cui sofferenze erano
state ripetutamente segnalate, e molti dei quali versavano in precarie
condizioni di salute. Dato che le operazioni militari facevano supporre
un'imminente occupazione del territorio del Reich, era indispensabile
che gli alleati assicurassero a tutti costoro un'immediata assistenza,
in attesa del rimpatrio.
In tal modo Visconti Venosta evitava ogni distinzione
fra gli italiani in Germania, mettendo sulla stessa barca gli IMI
rimasti nei campi, quelli trasformati in lavoratori civili, i civili
rastrellati dopo l'armistizio e quelli che si erano recati in Germania
prima dell'armistizio, con regolare contratto di lavoro, unificando
tutti nella qualifica di "lavoratori coatti". Si trattava
in parte di una forzatura, ma che aveva evidentemente l'obiettivo
di evitare i prevedibili, e pericolosi, distinguo da parte degli
inglesi.
Il tono della lettera fa anche supporre che nelle
intenzioni di Visconti Venosta l'elemento nuovo che avrebbe dovuto
convincere gli alleati ad intervenire era l'ormai imminente crollo
del Reich, di fronte al quale le preoccupazioni che avevano ispirato
la politica del blocco sarebbero dovute venir meno, o comunque attenuarsi.
Sir Charles trasmise il 5 ottobre questa lettera
al Foreign Office appoggiando caldamente la richiesta italiana (75),
e il Foreign Office, dopo una lunga meditazione, preparò
agli inizi di dicembre una bozza di risposta ancora una volta dilatoria,
in cui si affermava che "noi qui siamo ansiosi di fare il possibile
per questi sfortunati", ma si mettevano ancora una volta in
rilievo le difficoltà dei trasporti: comunque quando queste
fossero state superate non ci sarebbero state obiezioni ad inviare
una "ragionevole" quantità di soccorsi "to
the Italians interned in Germany" (76). L'uso dell'aggettivo
"interned" non designava i soli IMI non trasformati in
lavoratori civili, ma genericamente tutti gli italiani in Germania:
nella bozza infatti non si faceva nessuna distinzione fra le varie
categorie, proprio come si aspettava Visconti Venosta.
Questa bozza venne trasmessa il 13 dicembre a Wrightson,
che la restituì due giorni dopo con una serie di significative
correzioni, che miravano proprio ad operare quelle distinzioni che
il Foreign Office non aveva fatto, ed a sottolineare le novità
prodottesi negli ultimi tempi. Si diceva infatti che "per quanto
riguarda i 'lavoratori coatti' non è proprio questione che
noi permettiamo che vengano inviati loro dei viveri: far questo
servirebbe solo a sollevare i tedeschi della responsabilità
di nutrire i loro lavoratori, e non ci sarebbe nessuna differenza
fra il nutrire direttamente i tedeschi o qualsiasi altro lavoratore.
Per quanto riguarda il numero relativamente piccolo di autentici
internati... (valutati in meno di 30.000) noi autorizzeremmo volentieri
la Croce rossa internazionale a distribuire loro aiuti, ma i tedeschi
hanno rifiutato ogni intervento esterno ai campi" (77).
Nella lettera di accompagnamento Wrightson faceva
osservare un po' acidamente al suo collega del Foreign Office che
aveva suggerito quelle correzioni perché gli sembrava che
certi dettagli della questione potessero essergli sfuggiti, e gli
faceva anche notare che non era più il caso di enfatizzare
le difficoltà nei trasporti, "poiché con l'apertura
della Southern Route questo sta diventando un aspetto secondario"
(78). Il Foreign Office si adeguò, e rispose il 28 dicembre
a Sir Charles nei termini indicati dal Ministry of Economi Warfare
(79).
La posizione inglese venne subito dopo notificata
al governo del Regno d'Italia, ed anche gli americani, che avevamo
visto su posizioni diverse, dalla lettera di Miss Camp del 18 ottobre,
finirono per allinearsi sulle posizioni inglesi (80). Il governo
del Regno d'Italia continuavano intanto a muoversi su più
fronti, non molto attivismo ma senza ottenere nessun successo definitivo.
Particolarmente intensi furono, nell'autunno, i contatti negli Stati
Uniti, col sindaco di New York, Fiorello La Guarda, con i rappresentanti
di un comitato americano per gli aiuti all'Italia, e con la Croce
rossa americana, con la quale venne raggiunto un accordo di massima
per l'invio di 120.000 pacchi mensili di viveri e indumenti agli
internati, che sarebbero stati pagati dal governo regio e distribuiti
a cura della Nunziatura apostolica (81). La trattativa venne però
bloccata, e con essa anche un consistente quantitativo di generi
di soccorso raccolti in Argentina (82). Il governo regio non riuscì
neppure ad ottenere che gli Alleati sospendessero il divieto di
inviare pacchi familiari dalle zone d'Italia che venivano progressivamente
liberate. Questa misura, che veniva ufficialmente giustificata con
le difficili condizioni alimentari dell'Italia, provocò -
oltre ad una discriminazione materiale - sconcerto e amarezza fra
gli IMI, i quali comprendevano bene quali erano le ragioni che li
sottraevano alla tutela e al soccorso del CICR, ma non riuscivano
ad accettare di essere abbandonati dal governo a cui erano rimasti
fedeli, e dai suoi alleati. Pietro Testa, anziano del campo di Wietzendorf,
esprime efficacemente questo stato d'animo, nelle sue
memorie: "Di una cosa materiale, soprattutto, non ci potevamo
rendere conto.
Dal nord arrivavano i pacchi, spesso con difficoltà, ma arrivavano;
dalle terre liberate nulla: Eppure, la posta andava e tornava, i
moduli pacco arrivavano alle famiglie; e in tutte le lettere le
solite frasi: 'Ho ricevuto i moduli, ho preparato i pacchi, ma alla
posta non li ricevono; dicono che non hanno ancora ordini".
Sembrava assurdo: i tedeschi lasciavano partire i moduli ma gli
italiani, i nostri italiani, quelli del nostro Governo, non li lasciavano
venire. E' che allora, lassù, fieri della nostra resistenza
sentivamo di essere già qualcuno, di rappresentare qualche
cosa e non potevamo renderci conto che l'Italia, la nostra Patria,
non era ancora se non un insieme di rovine materiali e spirituali
che, faticosamente e in travaglio, cominciava appena a riprendere
forma" (83).
Paradossalmente, questo totale irrigidimento degli
Alleati coincise col cedimento dei tedeschi e dei repubblichini.
Il CICR, infatti, anche dopo il sostanziale fallimento delle trattative
a Berlino a fine maggio, non abbandonò la questione degli
IMI, ne sul piano materiale ne su quello diplomatico. Cercò
intanto di sfruttare le minime concessioni fatte dai tedeschi per
far arrivare agli IMI quel poco che potè raccogliere in Svizzera
grazie ad una colletta organizzata da un Comité d'Aide formato
da italiani ivi residenti e ad una somma di 150.000 franchi svizzeri
messa a disposizione dal Vaticano. Vennero così acquistate
11 tonnellate di tonno sott'olio e un certo quantitativo di medicinali,
che vennero distribuiti nei campi degli IMI tramite la Nunziatura
Apostolica a Berlino (84).
Nonostante l'esiguità materiale dei soccorsi, il riconoscimento
dell'intermediazione della Nunziatura da parte delle autorità
tedesche e repubblichine costituiva un importante passo avanti,
che il CICR fece valere anche nelle trattative con gli Alleati.
In particolare il 10 ottobre comunicò alla Croce Rossa americana,
che si stava adoperando per raccogliere generi di soccorso, che
gli IMI non trasformati in lavoratori civili erano circa 100.000,
e che gli aiuti loro destinati sarebbero dovuti passare attraverso
il SAI. Tuttavia le autorità tedesche erano disposte ad affidare
la distribuzione alla Nunziatura apostolica a Berlino, purché
ne venisse fatta esplicita richiesta, volta per volta all'Auswaertiges
Amt, e il CICR riteneva che questa fosse la via più opportuna
(85). Il cambiamento della situazione a Berlino era dovuto soprattutto
alla nuova crisi del SAI, che dopo aver fatto il massimo dello sforzo
fra maggio e settembre, con risultati peraltro modesti (86), ora
si trovava nella quasi totale impossibilità di assistere
adeguatamente sia gli IMI rimasti nei Lager che quelli trasformati
in lavoratori civili, i quali, pur ricevendo a volte un vitto migliore
dei primi, avevano comunque urgente di vestiario e di medicinali.
Molto significativo è il fatto che I'11 ottobre un funzionario
della Croce rossa italiana del Nord a Berlino giungesse a chiedere
a un delegato del CICR aiuti per questi civili (87).
Anche le autorità tedesche erano sempre
interessate all'arrivo di generi di soccorso, tanto più che
in quel periodo le razioni alimentari in Germania subivano una generale
riduzione, e che al tempo stesso si cercava di sfruttare al massimo
tutta la manodopera possibile. Quindi gli ostacoli posti in passato
cominciarono progressivamente a cadere. Agli inizi di novembre i
tedeschi autorizzarono la Nunziatura a Berlino a distribuire viveri,
vestiario e articoli ricreativi nei Lager degli IMI. Di fronte a
questa apertura il governo statunitense si mosse di nuovo, e nel
febbraio 19455 propose al Ministry of Economic Warfare l'invio di
20.000 pacchi viveri agli IMI, la cui distribuzione sarebbe stata
appunto effettuata dalla Nunziatura: ma il Ministry of Economic
Warfare oppose l'ennesimo rifiuto, appellandosi alle regole del
blocco (88). Infine, il 6 dicembre 1944 Marti ottenne il coronamento
dei suoi sforzi diplomatici: l'Auswaertiges Amt autorizzò
il CICR a distribuire direttamente, secondo le regole, generi di
soccorso agli IMI. C'era ancora la clausola delle etichette alleate,
ma Marti aveva già escogitato il modo di aggirarla: gli imballaggi
sarebbero stati eliminati e i funzionari dei campi avrebbero aperto
le scatolette, consegnandone direttamente il contenuto ai beneficiari
(89). Ormai la via verso i Lager degli IMI era spianata: ma era
un vittoria che giungeva troppo tardi, quando era praticamente inutile.
Anche perché i tempi tecnici degli ultimi contatti fra Berlino
e Ginevra e fra Ginevra e gli Alleati furono assai lunghi. Finalmente
il Ministry of Economic Warfare, informato dell'autorizzazione ottenuta
dal CICR, lasciò cadere la sua opposizione, ed autorizzò
l'invio dei 20.000 pacchi raccolti negli USA, bloccati a febbraio,
e di 130 tonnellate di viveri, che da tempo erano stati raccolti
dalla Croce rossa argentina. Questa autorizzazione portava la data
del 7 maggio... (90).
Ormai tutti gli IMI erano liberi, alcuni addirittura
da più di un mese. Dopo aver atrocemente sofferto la fame
per mesi e mesi, stavano finalmente mangiando a sazietà,
a spese delle scorte accumulate dai tedeschi, o grazie alle cucine
da campo delle truppe alleate, e non avevano più bisogno
di autorizzazioni.
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