Gerhard Schreiber
Como, 20 ottobre 1994
...vorrei innanzi tutto ringraziare gli organizzatori
di questa splendida mostra dedicata ai prigionieri di guerra italiani
e della nostra giornata di studio e di riflessione per il gentile
invito rivoltomi.
Davanti a tutte le brutalità e tutti gli orrori della guerra, la
sorte dei prigionieri italiani, come quella di tutti i prigionieri
di guerra, sembra essere fra i problemi meno gravi del secondo conflitto
mondiale. Questo anche perché la convenzione di Ginevra del '29
fissò dettagliatamente i diritti ed i criteri di trattamento relativi
ai prigionieri. D'altra parte è una verità che non tutte le potenze
che avevano sottoscritto tale convenzione si siano attenute alle
sue norme. Questo vale soprattutto per quanto concerne il comportamento
dei tedeschi nei confronti dei soldati italiani catturati dalla
Wehrmacht dopo l'8 settembre del '43, sui quali mi è stato chiesto
di riferire.
E desidero premettere che questi prigionieri,
definiti - in seguito ad una speciale disposizione di Hitler del
20 settembre - internati militari italiani, rappresentarono uomini
traditi e disprezzati che ciò nonostante non si rassegnarono e non
si comportarono da opportunisti. Al contrario essi conservarono,
in maggioranza, il proprio onore attraverso una resistenza le cui
espressioni furono certamente molteplici, ma tuttavia possiamo definire
detta resistenza con una sola parola: il NO alla collaborazione
con il fascismo ed il nazionalsocialismo.
Tale rifiuto si manifestò chiaramente subito dopo
il disarmo di circa 1.007.000 soldati italiani nell'autunno del
'43 e particolarmente nell'estate del '44 quando fu offerta la possibilità
di assumere un rapporto di lavoro civile. Secondo una fonte fascista
soltanto un terzo dei circa 590.000 internati militari scelse allora
volontariamente di modificare la sua posizione, gli altri ne furono
obbligati. Anche le risultanze dell'esame della corrispondenza degli
internati in Germania - effettuato dal Regio Governo - confermarono
che tale passaggio del '44 venne realizzato, per la maggior parte,
d'autorità.
Ciò risulta inoltre sia dalla memorialistica che dalla documentazione
tedesca.
E questo NO, ampiamente documentato, ebbe indubbiamente
una dimensione storica e si dovrebbe essere inquadrato come contributo
alla guerra di liberazione. Quanto detto non rappresenta soltanto
di una mia interpretazione, perché il 26 febbraio del '45 l'Alto
Commissario per i prigionieri di guerra sottolineò ufficialmente
che i numerosissimi ufficiali e funzionari di carriera e di complemento,
sottufficiali e soldati - "che si sono rifiutati di aderire al Governo
neo-fascista, che si sono rifiutati di lavorare per i tedeschi e
che per questo loro rifiuto [soffrirono] volontariamente" - servirono
alla causa degli Alleati e dell'Italia.
Nella mia relazione, intendo illustrare il significato
e l'etica di detto NO ai dittatori, confrontandolo con alcuni aspetti
centrali del disarmo e della vita dei soldati italiani nei Lager.
In oltre saranno brevemente discusse le ragioni del comportamento
brutale dei tedeschi nei confronti degli italiani dopo l'armistizio.
La storia dell'internamento cominciò con la separazione
italo-tedesca l'8 settembre del '43. Si trattò di un passo, che,
per varie ragioni, non si può definire in nessun modo come tradimento
all'italiana. Poiché non c'era alternativa, la sopravvivenza della
nazione esigeva semplicemente che si ponesse termine ad un assurdo
sacrificio di vittime umane ed all'inutile distruzione di tanti
beni materiali.
D'altra parte è da chiedersi se le conseguenze
dell'armistizio, che le Forze Armate dovettero subire, erano davvero
inevitabili. E' noto, che il Comando Supremo e lo Stato Maggiore
dell'Esercito emanarono, tra il 2 ed il 6 settembre, alle Grandi
Unità ed ai Capi di Stato Maggiore di Forza Armata ordini riguardanti
i compiti che dovevano assolvere, mancava però un qualsiasi accenno
alla data dell'ormai imminente armistizio. Così si spiega che gli
ufficiali responsabili non si resero conto che dovevano prepararsi
con la massima urgenza a tale eventualità. Ma il difetto principale
degli ordini impartiti consisteva a mio avviso nel fatto, che i
singoli comandanti potevano agire autonomamente solo nel caso che
ci fosse stata una precedente aggressione tedesca. In ciò si riscontra
una incomprensibile rinuncia alla propria iniziativa.
Tutti inconvenienti che sarebbe stato ancora possibile
evitare - o quanto meno limitare - se l'8 settembre fosse stato
diramato l'ordine inequivocabile di considerare i tedeschi come
nemici. Questa direttiva venne invece impartita soltanto l'11 settembre:
ovverosia il terzo giorno dopo la fuga di Vittorio Emanuele III,
insieme con il suo seguito, dalla Capitale; ed a tale proposito
si è sostenuto che la fuga del Re sia stata necessaria per garantire
la continuità dello Stato italiano.
Comunque sia, la stessa spiegazione certamente non può essere ritenuta
altrettanto valida per i generali che abbandonarono Roma con il
Sovrano mentre le loro truppe stavano per affrontare la Wehrmacht.
L'aver lasciato le forze armate in preda ad un caos prevedibile
era senza il minimo dubbio in contrapposizione alle migliori tradizioni
militari. Poiché prescindendo nel modo più assoluto da qualsiasi
valutazione della situazione, per quanto ottimistica o pessimistica
potesse essere, i soldati del Re avevano l'incontestabile diritto
di essere guidati dai superiori e di ricevere ordini ben precisi.
Ed una volta ammesso che le unita italiane non avrebbero avuto la
pur minima possibilità di opporsi con successo all'aggressione tedesca,
sarebbe stato lecito attendersi un ordine di resa impartito da Comandi
consapevoli delle proprie responsabilità. In realtà però le truppe
vennero abbandonate dai loro vertici proprio nel momento peggiore
della crisi: e ciò in genere è considerato tradimento.
E non dimentichiamo che i militari italiani si
videro traditi una seconda volta, quando i generali tedeschi, in
perfetta malafede, assicurarono loro che subito dopo la consegna
delle armi i soldati in madrepatria potevano ritornare a casa, mentre
le truppe disarmate al di fuori del territorio nazionale sarebbero
state immediatamente rimpatriate. Senza il ricorso a questo perfido
inganno il disarmo sarebbe stato in molti casi più difficile e avrebbe
avuto in alcune situazioni un esito diverso.
Per quanta concerne la reazione tedesca all'armistizio si deve accettare
che, dal punto di vista dei vertici politici e militari di Berlino,
fu logico che si preparassero l'occupazione dell'Italia ed il disarmo
delle sue truppe. Queste contromisure si possono interpretare -
tenuto conto dello sviluppo della situazione strategica dal luglio
al settembre del '43 - come una reazione dettata dalla politica
realistica o di potenza.
Ma durante la messa in atto delle loro contromisure
i tedeschi non si limitarono al procedimento convenzionale. Difatti
già il 10 settembre il Comando Supremo della Wehrmacht dichiarò
che i militari italiani che avessero opposto resistenza andavano
considerati franchi tiratori, per guanto essi soddisfacessero tutte
le condizioni richieste dalla Convenzione dell'Aja per ricadere
sotto lo status di belligeranti. E nei giorni seguenti furono emanati
ulteriori ordini criminali che soltanto un pugno di ufficiali si
rifiutò di eseguire. Riguardo a queste direttive vorrei menzionare:
- la fucilazione, con procedimento sommario,
di comandanti i cui subordinati, dopo un ultimatum a breve scadenza,
non avessero deposto le armi;
- l'uccisione di ufficiali nel caso in cui i
loro soldati avessero fatto pervenire nelle mani dei cosiddetti
insorti armi o munizioni o avessero collaborato con loro; i sottufficiali
ed i militari di truppa di tali unità dovevano essere trasferiti
immediatamente ad Est dove venivano impiegati - contro il diritto
internazionale - nella zona di operazioni dell'esercito;
- la direttiva del Gruppo di Armate E di trucidare
senza alcuna formalità militari italiani sorpresi in abiti civili;
- l'ordine di Hitler di non fare prigionieri
nell'isola di Cefalonia.
In ciò sembra degno di nota il fatto che perfino
nel corso della guerra di sterminio in Russia non furono mai emanati
simili ordini. Ai soldati dell'Armata rossa - tranne i commissari
politici - il regime nazista concesse almeno il diritto di difendersi,
mentre nei confronti dei militari italiani la difesa contro l'aggressione
armata della Wehrmacht fu considerata come atto meritevole di morte.
Ed in seguito a questi ordini criminali persero la vita fino a 11.700
soldati di ogni grado.
Per quanto concerne il difficile problema dei dati numerici sugli
internati militari basti soltanto dire che all'inizio di febbraio
del '44, quando i dati statistici sembrano essersi stabilizzati,
ne vennero registrati in tutti i campi di prigionia pressappoco
616.000. Fino a luglio di quell'anno, mese a cui risale l'ultimo
quadro complessivo disponibile, prima che, nell'agosto successivo
venisse impartito l'ordine di conferire alla maggior parte degli
internati lo status di lavoratori civili, il numero dei militari
italiani catturati si era ridotto a 590.000; una diminuzione del
tutto irrilevante.
Un altro problema discutibile è la classificazione
dei prigionieri italiani come internati militari. Riguardo a ciò
mi limito alla citazione del Commissario per i prigionieri di guerra.
Egli osservò senza mezzi termini: "L'internamento fu e rimane un
provvedimento illegittimo ed irrazionale perché in tempo di guerra
non può un belligerante catturare e trattenere persone appartenenti
alle forze armate di un belligerante avversario se non in quanto
sono o le considera spie o prigionieri di guerra. E belligerante
avversario diveniva di fatto, per gli atti di ostilità che le forze
armate italiane compievano, il Governo italiano che si era schierato
a favore dei governi Alleati. Internare quei nostri connazionali
e sottrarli alla protezione della Convenzione di Ginevra non poteva
dunque essere e non fu che atto di odiosità, di reazione inumana
contro il sentimento e il gesto dei nostri soldati al governo legittimo
d'Italia, si potrebbe quasi dire una specie di rappresaglia ingiustificata
che il diritto delle genti e il sentimento umanitario non possono
non condannare."
Partendo dalla citata osservazione contemporanea,
che evidenziò giustamente che i soldati italiani catturati non godevano
la protezione della convenzione di Ginevra, vorrei rivolgermi al
trattamento degli internati militari da parte dei tedeschi. Dato
il fatto che il feldmaresciallo Keitel, Capo del Comando Supremo
delle Forze Armate tedesche, definì l'inserimento dei prigionieri
italiani nell'industria degli armamenti già verso la fine di settembre
del '43, un "imperativo dell'autoconservazione del fronte", ci si
sarebbe dovuti aspettare che il trattamento di questi uomini fosse
stato in linea con l'importanza che essi avevano per la condotta
di guerra nazionalsocialista. Ma dalla lettura delle fonti ufficiali
e della memorialistica si ha invece l'impressione che agli ex compagni
d'armi fin dall'inizio non fosse riservato che il disprezzo.
I militari internati definirono già i trasporti come l'anticamera
dell'inferno dei Lager. Si legge di carri bestiame sovraccarichi
fino all'inverosimile che non venivano mai aperti per giorni e giorni.
Mancava il cibo, l'acqua e la possibilità di soddisfare i bisogni
corporali più essenziali.
Oltremodo inumani erano i trasferimenti per mare
dalle isole greche sulla terraferma. Lo spazio utile sulle navi
veniva sfruttato fino ai limiti estremi. L'imbarco avveniva senza
riguardo alle possibili perdite, cioè senza considerare quante scialuppe,
giubbotti di salvataggio ed anelli salvagente fossero disponibili.
Come conseguenza di ciò il trasporto marittimo equivalse per migliaia
di internati ad una condanna a morte.
Infatti il 17 per cento dei 76.700 italiani imbarcati - cioè 13.300
uomini - trovarono la morte in mare. A differenza di ciò nell'autunno
del '44, quando il Gruppo di Armate F ritirò le proprie truppe dalle
isole del Mediterraneo orientale, dei circa 37.200 soldati tedeschi,
che salirono a bordo delle navi, solo 380 morirono e ciò nonostante
sia stato affondato il 71 per cento della stazza lorda impiegata.
Quindi, per quel che riguarda i tedeschi, non il 17 per cento degli
uomini trasportati, come nel caso degli italiani, ma soltanto l'1
per cento perse la vita. Tali cifre non hanno bisogno di commenti.
I soldati italiani sopravvissuti al disarmo ed alla deportazione
raggiunsero prima o poi uno dei numerosi campi di concentramento,
dove fecero, come scrisse Giovannino Guareschi nel suo diario, la
sconvolgente conoscenza della Signora Germania. Con l'arma del sarcasmo
il famoso umorista dà forma letteraria a ciò che molti internati
militari sperimentarono: il disprezzo da parte della maggioranza
dei tedeschi con cui venivano in contatto, l'umiliazione dello scherno
e dell'insulto, il confronto con esseri umani che sputavano loro
addosso o addirittura li aggredivano fisicamente. La marcia attraverso
le città sembrava, non di rado, trasformarsi psicologicamente in
un passaggio sotto le forche caudine. A questo proposito leggiamo
per esempio nel diario dell'internato bresciano Lino Monchieri:
"Smontiamo alla stazione centrale di Hannover, rovinata dalle bombe
e dagli incendi. [...]. Ci fanno sfilare per le vie della città.
La gente non fa complimenti; ci insulta, ci maledice, ci chiama
traditori, badogliani [...]. Da una finestra, una vecchia digrigna
i denti e mostra la lingua. Alcuni giovani ci coprono di sputi.
I bambini ci sbeffeggiano. [...]. Le donne e i ragazzi, almeno a
giudicare dalle reazioni nei nostri confronti, sembrano più fanatici
e crudeli. Un ragazzino che portavo in collo, fuori dallo scantinato
invaso dal fumo, mi ha sputato addosso, chiamandomi: [...] porco
comunista."
Ed il caporale maggiore Leonello Montefiori -
già della divisione di fanteria "Acqui" - conferma le esperienze
di Monchieri. Egli si riferì alla situazione nel campo di Furstenberg
e riporta nelle sue notizie fra l'altro: alle ore 18 "rientro dal
lavoro". Durante quest'ultimo "i prigionieri piantonati da anzianissimi
soldati tedeschi armati, vengono trattati brutalmente dai vecchi
capi squadra borghesi e sputacchiati e derisi dalla popolazione".
Chi non voglia prestar fede ai racconti delle vittime vada a consultare
i rapporti segreti sulla situazione del Servizio di sicurezza delle
SS, le cosiddette comunicazioni dal Reich. Secondo detta fonte certamente
attendibile, una gran parte dei tedeschi non voleva accettare "un
trattamento umano e comprensivo" verso gli internati. Questi incontravano
"dappertutto gelido rifiuto e disprezzo". In tutti gli ambienti
si provava "odio" per loro. Alcuni volevano insegnare agli italiani
a lavorare alla maniera tedesca, "anche se ciò li avrebbe fatti
crepare". Gli internati vennero infatti minacciati di "botte ed
impiccagione". E per qualche tedesco il popolo italiano nel suo
insieme meritava di "essere accomunato agli ebrei", che andavano
considerati "feccia dell'umanità".
D'altra parte è certamente difficile generalizzare. Perché gli internati
militari non incontrarono il tedesco, ma dei tedeschi, il cui comportamento
poteva risultare diverso, come in effetti fu. Ciò nonostante un
confronto delle valutazioni positive e negative che ci vengono dalle
fonti mostra che nella documentazione sia privata che ufficiale
la vita durante la prigionia viene descritta prevalentemente in
chiave negativa. Sono rarissimi gli internati militari che hanno
avuto la fortuna di Giovanni Ansaldo. Il quale, come prova la lettura
del suo diario recentemente pubblicato, passava ovviamente la vita
di un prigioniero privilegiato.
Comunque sia, per quanto concerne la vera faccia
dell'internamento mi sembrano particolarmente illuminanti i risultati
del controllo della corrispondenza dei prigionieri di guerra da
parte del Comando Supremo del Regno d'Italia o da parte degli Alleati.
Le lettere erano naturalmente già state censurate dai tedeschi.
Ma si riuscì a rendere leggibili le frasi cancellate. E nella relazione
conclusiva dell'esame di 39.000 lettere scritte nel novembre e dicembre
del '43, si legge fra l'altro: "Tutti i prigionieri - ufficiali
e soldati - lamentano l'insufficienza di cibo. - Ben 15.000 sono
i bollettini di richiesta per spedizione dei pacchi". Sappiamo dalla
memorialistica ed anche dalle fonti ufficiali che la fame era un
fattore costante e dominante della prigionia. Dalle lettere risultava
inoltre che in genere ai prigionieri venne distribuita: "una minestra
a base di patate (giornalmente), pane (non giornalmente), grasso
o carne in piccola quantità e marmellata (2 - 3 volte alla settimana)".
Un altro "motivo di sofferenza" era "costituito dal freddo intenso
e dall'insufficiente vestiario". Infatti gli italiani soffrivano
più degli altri prigionieri il freddo perché mancavano indumenti
adatti al clima, coperte, lenzuola e combustibili. Stando alle fonti
ufficiali gli internati militari erano fra tutti gli uomini detenuti
nei campi di concentramento quelli che si trovavano nelle condizioni
più miserevoli. A volte erano ricoperti di soli stracci. Talvolta
vengono descritti mezzi nudi. Ancora nell'ottobre del '44 il Ministero
degli Esteri a Berlino lamentò per esempio, che la situazione generale
ed in particolare quella del vestiario di 250 prigionieri italiani,
impiegati in lavori nelle trincee presso Kalzig, era molto peggio
di quella di tutti gli altri uomini compresi i cosiddetti Ostarbeiter,
cioè operai dell'est - che facevano lo stesso lavoro.
Esemplare risulta la situazione di moltissimi
internati da una drammatica lettera del Sergente Salvatore Pisani.
Egli scrisse il 12 dicembre del '43 dal campo di prigionia per sottufficiali
e militari di truppa di Schwerin: "Son tre mesi di angoscia e di
pene amare non sconfortatevi di ciò. Son povero, così mi hanno reso,
freddo intensissimo, fame orribile, qualunque erba e cibo [...].
Come me tutti i miei compagni, figuratevi mi trovo dove il mare
è ghiacciato in varie località, considerate voi lavorare fuori da
mattina a sera con pala e piccone. Quello che mi raccomando celerità
sulla spedizione dei pacchi. Non vedo l'ora che mi arriva qualche
cosa per sfamarmi."
In tale contesto si deve anche ricordare al fatto che l'argomento
dell'assistenza della Croce Rossa Italiana fu "poco trattato nella
pur numerosa corrispondenza". Infatti il suo aiuto non fu efficiente;
e lo stesso vale per il Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Comunque, per quanto riguarda la vita quotidiana
degli internati militari si legge in un rapporto del capitano Giordano
Menis: "La vita nel campo di concentramento di Neubrandenburg si
riassume in poche parole: fame, freddo, maltrattamenti d'ogni genere,
spoliazioni, malattie, molti casi letali per denutrizione. Duecentottanta
militari d'ogni arma e grado, in una baracca. Appelli diurni e notturni
che non finivano mai, sotto la pioggia, il nevischio, il vento ed
il freddo acuto." E così fu la vita dei prigionieri non solo a Neubrandenburg.
Un internato militare di Torgau scrisse per esempio: "noi qua non
ne possiamo più a resistere con questa vita, pensa, a fare 12 ore
al giorno di lavoro, come i lavori forzati". Quando "rientri la
sera, trovi un poco di sboba e altro". Un suo compagno dallo stesso
Lager raccontò: "da nove mesi non facciamo altro che bere al posto
di mangiare. Bere acqua calda con [...] un pezzetto di carote o
di rapa fradicia o qualche foglia di verza marcia. Di fave ne passano
200 grammi circa una volta al giorno e con queste dodici ore di
esternante e faticosissimo lavoro". E dal campo di Wistritz si sentì:
"questi vigliacchi ci fanno lavorare e ci fanno puzzare la fame;
lavorare dalla mattina alle 4 sino alla sera alle 9, sedici ore
di lavoro, e tutta la giornata due patatine piccole e un po' di
acqua." Allarmante la situazione in un campo di lavoro del Lager
di Sagan dove la direzione diminuì il rancio nonostante il fatto
che la meta degli allora 800 prigionieri doveva ritornare "al campo
per deperimento organico". Al pessimo trattamento alimentare si
aggiunsero maltrattamenti fisici. In una lettera da Stargard fu
scritto: "solo mi danno un po' disturbo le due ferite". Tu "capirai
[...] bastonate e lavorare". Ed un internato di Freinsheim comunicò:
"chi non lavora son guai e quasi senza mangiare; dunque si deve
lavorare per forza se no sono botte". Si trattava di una combinazione
letale: lavoro pesante, freddo, fame, alimentazione insufficiente,
vestiario inadeguato e - come vedremo - penuria di medicinali.
Quale fosse la vera situazione alimentare dei
prigionieri italiani emerge chiaramente da una dichiarazione di
Hitler fatto verso la fine d'aprile del '44; quando egli affermò
all'interno della sua cerchia, che dagli italiani che ricevevano
un nutrimento pari nel migliore dei casi - al 50 per cento della
norma, non c'era da aspettarsi una prestazione lavorativa del 100
per cento. E già nel gennaio del '44 fu richiamata l'attenzione
sul vero e proprio stato d'emergenza in cui si trovavano gli internati
militari occupati nelle acciaierie Alfred Krupp a Rheinhausen. A
causa della precarietà del vitto non adatto a un lavoro fisico particolarmente
gravoso, nel giro di poche settimane 25 per cento dei prigionieri
italiani divenne inutilizzabile. La direzione aziendale comunicò
l'insorgere di perdite di peso fino a 22 chili, spesso la comparsa
di malattie di ogni tipo, finanche turbe mentali. Descrive inoltre
in modo convincente la situazione degli internati militari ciò che
alcuni funzionari della Repubblica Sociale Italiana riferirono in
quel periodo da tutto il territorio del Reich: i loro connazionali,
affamati, andavano in cerca di cibo tra i rifiuti della popolazione
tedesca.
Nella maggior parte delle lettere i prigionieri
si esprimevano in un modo cauto, molto probabilmente per passare
la ben nota censura tedesca, cioè per garantire l'arrivo del segno
di vita presso la propria famiglia.
Forse anche per questa ragione furono abbastanza astratte le informazioni
sul trattamento per quel che riguarda l'impiego al lavoro. Ma alcune
circostanze tipiche si possono scoprire leggendo gli scritti degli
internati. Osservo per esempio Antonino Croazzo nel campo di Neubrandenburg:
"Trascorro le giornate lavorando dodici ore al giorno; una settimana
di giorno ed una di notte. I lavori sono pesanti". E Salvatore Scalia
del campo di Gorlitz si lamentò: "Il lavoro è pesante, fa freddo;
sono o per meglio dire siamo nudi. Lavoriamo in campagna con i miei
cento compagni di prigionia". E nella sua relazione sulle esperienze
nei campi della Wehrmacht il tenente cappellano Colombo don Giuseppe,
che aveva
visto i campi di Posen, Limburgo e Forbach, scrisse riguardo alla
situazione presso il comando di lavoro di Neunkirchen nell'aprile
del '44: "qui circa 2000 nostri soldati languivano per la fame ed
il duro lavoro della miniera e degli alti forni sotto la sferza
del capo Campo e della polizia tedesca. Vi furono parecchi morti
per incidenti di miniera e per rappresaglia. Molti morirono anche
per esaurimento fisico. Numerosi altri invalidi per incidenti di
miniera."
Aspetti delle condizioni riguardo l'impiego al
lavoro e le sue conseguenze risultano inoltre dalle fonti ufficiali.
Generalmente il gruppo dirigente nazionalsocialista cercava naturalmente
di esigere da tutti i prigionieri di guerra il massimo rendimento.
Ma nei confronti degli italiani tale obiettivo poté essere raggiunto
solo di rado perché la maggior parte di loro praticava un mezzo
rifiuto del lavoro: senza dubbio si trattava non solo di una protesta,
ma anche di una resistenza passiva e voluta.
Dopo che Hitler in persona aveva deciso di occuparsi
del problema, il Comando Supremo della Wehrmacht stabilì di mettere
in ginocchio tutti i prigionieri italiani che continuavano ad opporre
un rifiuto. Alla fine di febbraio del '44 detto comando emanò perciò
l'ordine di correlare l'alimentazione degli italiani con il rendimento
e, in caso che fosse stato scarso, di rifiutarla a tutta la squadra,
senza preoccuparsi di coloro che si fossero prestati di buon grado
al lavoro. Questa punizione indifferenziata avrebbe dovuto causare
divisioni fra gli internati. Come presso le squadre che lavoravano
a cottimo nelle quali gli operai tedeschi, che volevano salvaguardare
i loro stipendi, stavano bene attenti affinché i prigionieri di
guerra ed i lavoratori coatti rispettassero i ritmi di lavoro. Così
si cercava, collegando le razioni al rendimento, di porre gli italiani
raggruppati in una stessa squadra - gli uni contro gli altri. Cioè
i dirigenti tedeschi speravano che gli irriducibili presenti nelle
unità lavorative sarebbero stati costretti dai loro compagni, sottoposti
collettivamente alla minaccia di vedersi ridotti i viveri, a fornire
il rendimento richiesto.
Viene inoltre ricordato il fatto che alla metà
del '44 il Governo del Reich dovette accondiscendere a garantire
agli internati militari, allo scopo di migliorarne le condizioni
sanitarie e accrescerne la capacità produttiva, razioni supplementari
di vitto, altrimenti si sarebbe messo a rischio un loro crollo totale,
cosa che l'economia di guerra tedesca non avrebbe potuto facilmente
sopportare.
A questo punto, in effetti, la situazione si presentava
catastrofica. Gli internati che si ammalavano erano in notevole
aumento e la percentuale dei morti cresceva a ritmo incalzante.
Alla Daimler Benz di Mannheim i prigionieri italiani che si trovavano
in condizioni di estrema debolezza morivano generalmente dopo breve
tempo in seguito a banali malattie infettive. Però prima dell'estate
non ci fu altro provvedimento se non un maggior controllo sanitario
per gli uomini cui era stata diminuita la razione alimentare; e
ciò solo affinché non si verificassero crolli di massa. I medici
che eseguivano il controllo si rendevano del resto conto di essere
tenuti ad applicare criteri rigidi. E se un caso verificatosi alla
Volkswagen veniva considerato rappresentativo, essi li applicavano
in modo veramente ferreo. Là un internato militare, dopo essere
stato visitato da un medico e considerato idoneo al lavoro, mori
sul suo posto di lavoro.
Per prendere in esame alcune particolarità dell'internamento
appare giusto affrontare innanzitutto la questione dell'assistenza
sanitaria degli internati militari italiani. In questo settore la
situazione era tale da destare chiaramente scandalo. Ad esempio
l'ufficiale italiano che svolgeva la funzione di anziano del campo
di Gro8 Hesepe fece mettere a verbale che qui morivano spesso ufficiali
anziani poiché a loro veniva rifiutata la necessaria assistenza
medica.
Da tutti i campi si segnalarono numerosi casi di tubercolosi, di
cui pochi vennero rimpatriati, mentre molti morirono in prigionia.
In questo contesto vorrei osservare che fin dall'agosto del '44
il Servizio Assistenza Internati, cioè l'ufficio fascista che avesse
dovuto tutelare gli interessi degli internati militari, aveva sollecitato
il rimpatrio di 6.200 prigionieri che si escludeva che sarebbero
potuti guarire finché fossero rimasti nel territorio del Reich.
A titolo di confronto si tenga presente che alla fine dell'anno
il totale dei casi analoghi era già salito a 15.000. Per una parte
degli ammalati il rimpatrio avvenne poche settimane prima della
fine della guerra. E non pochi di loro, tornati finalmente in Italia,
vennero nascosti per non far vedere al pubblico in quali condizioni
si trovavano.
Per quanto concerne però la precaria situazione
sanitaria degli internati militari, cito dalla lettera di un ufficiale
medico del campo di Wolfsberg che informo sul fatto, che "le condizioni
di vita" cominciarono "a farsi piuttosto difficili, specie per il
vitto [...] assolutamente insufficiente". Ed egli continua: "La
conseguenza è che molti nostri ragazzi [...] prima in buona salute
improvvisamente si ammalano gravemente"; e "sono diventati piuttosto
frequenti i casi di T.B.C.; su duecento ammalati ne abbiamo una
cinquantina". Ma "la vera tragedia è che si hanno pochissimi mezzi
per curarli". E dal campo di Hartmannsdorf si sentì che "tutti gli
italiani non "pesavano più di 45 chili, e "3 quarti" erano "tubercolosi".
Secondo lo scrivente si mangiarono "ogni 24 ore due patate".
A Czestochowa, un campo per ufficiali, nel febbraio
del '44 circa l'80 per cento degli allora circa 2.200 prigionieri
ebbero a soffrire di edemi da fame; e come negli altri campi del
"Governatorato Generale" dal 30 al 40 per cento si ammalò di T.B.C.
Fra di loro vi furono casi gravi di tubercolosi polmonare. Tuttavia
fu impossibile ottenere nell'arco di otto mesi un letto in ospedale
anche per un solo internato militare.
Normalmente per assistere e curare i prigionieri
italiani ammalati erano a disposizione soltanto le infermerie che
sorgevano all'interno dei rispettivi campi, ma non pare che si sia
trattato sempre di luoghi ove si potessero alleviare le loro sofferenze.
Vengono spesso descritte condizioni igieniche al limite dell'incredibile.
Era del tutto normale - come constato anche il citato ufficiale
medico di Wolfsberg - la persistente mancanza di medicinali. Delle
13.000 tonnellate di materiale sanitario che dopo l'8 settembre
caddero nelle mani della Wehrmacht nel solo territorio italiano,
non giunse evidentemente nulla nei campi di internamento. Anzi,
i prigionieri italiani raccontarono che il personale di sorveglianza
sottraeva loro non solo oggetti di valore di ogni genere ma anche
i medicinali che di tanto in tanto arrivavano con i pacchi dai loro
parenti. Inoltre persino coloro che erano ricoverati nelle infermerie
pativano la fame. E a volte i pazienti ricevevano meno nutrimento
dei loro compagni sani.
Affinché si capisca che cosa questo volesse dire, si deve ricordare
il fatto che per questi ultimi la fame quotidiana era talmente insopportabile
da costituire un vero e proprio trauma. Col tempo i comandanti dei
prigionieri si videro costretti a far costruire i cosiddetti campi
lazzaretto perché cresceva continua- mente il numero degli ammalati
e dei feriti.
Si potrebbe supporre che almeno in tali Lager le condizioni dei
pazienti fossero migliori. Ne sappiamo, solo per dare un esempio,
dal rapporto del già citato tenente cappellano Colombo, che tra
metà luglio e novembre del '44 all'ospedale di Saarburg si trovavano
oltre 200 malati italiani "tra tubercolotici e pleuritici" di qui
una ottantina mori entro quattro mesi: cioè il quaranta per cento.
Ed ancora nel marzo del '45 il delegato generale della Croce Rossa
della Repubblica Sociale Italiana non fu in grado di comunicare
- dopo una sua visita nei campi-lazzaretto - qualcosa di positivo.
Egli aveva avuto l'impressione di trovarsi - testualmente - di fronte
ad un'orda di affamati. Si registrarono cali di peso fino a 30 chili.
Anche altre fonti del Governo fascista riflettono che cosa stava
accadendo nei Lager. Nel quadro tracciato in questi documenti prendono
esatti contorni uomini simili a scheletri o tumefatti da edemi,
che si trascinavano nei campi di prigionia, oppure altri esseri
ancora viventi, ma del tutto inebetiti o incapaci di pronunciare
una sola parola a causa dei patimenti sofferti.
Vorrei concludere la mia descrizione - necessariamente molto frammentaria
- della vita nei campi di concentramento con la relazione del tenente
di complemento Antonio Bozzini sull'ospedale per italiani di Neppen,
per guanto io sappia, finora mai citato. Dopo il suo arrivo, il
10 novembre del '44, Bozzini fu accompagnato ad una baracca che
gli sembro un inferno: "Non appena [oltrepasso] la soglia dell'ingresso"
si accorse di "un tanfo di chiuso e di lordura indescrivibile".
Gli venne "incontro un capitano con la divisa malandata e sudicia"
a dargli "il benvenuto ed a presentarsi, mentre una settantina di
volti di altri ufficiali e soldati" lo squadrarono e fecero altrettanto:
"volti sparuti, macilenti, solcati dai segni della fame, delle sofferenze
e della malattia.
La maggior parte" erano "sospetti di tubercolosi" ed in attesa della
"loro condanna". Inoltre c'era "qualcuno colpito da altri mali e
qualche altro sventurato privo di uno o più arti per infortunio
sul lavoro; in poche parole tutta gente che ai tedeschi non servi
più e quindi abbandonata forse per non ucciderla, forse per farla
soffrire, forse ... chi sa perché". Il tenente fu "tempestato di
domande". Uno chiese: "Ma cosa mangiavi tu che sei cosi florido
- florido nei loro confronti." E lui ebbe difficoltà a farsi "intendere
perché questa gente racchiusa da mesi nell'anticamera della morte"
aveva "perso anche il senso della misura, tanto che uno con eccitazione"
osservo: "ma non parlare di piatti, parla di gavette. Arrivava al
bottone o meno? Era densa la zuppa? V'erano molte patate? Erano
sbucciate?" Nel cosiddetto ospedale lavoravano, sotto il controllo
di un medico tedesco, medici italiani, i quali pero non ebbero la
possibilità "di dare l'assistenza necessaria ai malati, per mancanza
di mezzi". I tedeschi non passarono più niente, "neppure i medicina-
li". Ed il Bozzoni vide infatti "morire un Sotto Tenente per mancanza
di siero antidifterico". Nel campo - in totale fra ufficiali, sottufficiali
e truppa - vi furono "circa un migliaio di tubercolosi e pochi altri
sventurati". Esiste anche una baracca dove vennero "isolati alcuni
ai quali e sopravvenuta la demenza". Secondo questo racconto fu
assolutamente "impossibile descrivere lo strazio morale e le sofferenze
fisiche di tutti questi sventurati che oltre a patire la fame ed
i maltrattamenti", non potevano "dormire durante la notte per la
quantità iperbolica di amici" che pullulavano "nei giacigli, per
la durezza degli stessi giacigli sprovvisti di paglia e per il rumore
che alcuni [prigionieri facevano] nel prendere ed uccidere grossi
topi che il giorno seguente" cucinavano e mangiavano "appetitosamente".
Sempre secondo il tenente Bozzoni morirono "in media da quattro
a sei persone al giorno" e si dovette "assistere alla scena pietosa,
triste, raccapricciante il litigio dei vivi che, come lupi famelici
si gettano su ogni cadavere per prendere ahi la giacca, ahi i pantaloni,
chi la camicia e gli altri stracci per arrangiare con questi i propri".
In fin dei conti gli italiani catturati si trovavano
generalmente al penultimo posto nella gerarchia dei prigionieri
del Terzo Reich. Secondo la testimonianza di Enrico Zampetti furono
considerati "delle bestie" di cui si parlava "con sommo disprezzo".
Questo disprezzo fu cosi palese che gli stessi rappresentanti della
Repubblica di Salo riferirono al loro governo che, dal modo di comportarsi
dei tedeschi con gli italiani, appariva chiaro come quest'ultimi
fossero considerati "esseri inferiori". E dalla documentazione tedesca
risulta chiaramente il fatto che qualche volta gli internati militari
italiani sono stati trattati persino peggio dei cosiddetti Untermensahen
- che vuol dire uomini inferiori dell'Unione Sovietica. Che le cose
siano state davvero cosi e confermato anche nelle memorie di qualche
prigioniero russo.
Dobbiamo pertanto chiederci per quali motivi tanti tedeschi si comportarono
verso gli italiani da violatori del diritto, sia internazionale
che nazionale, e perché essi dimostrarono una disumanità inconcepibile
riguardo ai loro ex alleati; disumanità della quale l'esecuzione
degli ordini criminali fu una delle prove più opprimenti. A mio
avviso nel disprezzo crudele verso i militari italiani catturati
si scaricavano avversioni aggressive che avevano ben poco a che
vedere con gli avvenimenti dell'8 settembre. Questo comportamento
sprezzante ed inumano di tanti tedeschi non fu una semplice reazione
all'armistizio, sebbene alcuni storici - in conformità involontaria
con la storiella del tradimento italiano, inventata e diffusa dalla
propaganda nazista - insistono su una tale, nel migliore dei casi
parziale, spiegazione. Tuttavia vorrei sottolineare - per evitare
malintesi - che certa- mente molti tedeschi, i quali giudicarono
frettolosamente senza pensarci due volte, erano convinti che l'Italia
avesse tradito il Terzo Reich. La gente, non conoscendo i fatti,
reagiva semplice- mente in modo emozionale o impulsivo.
E non ci sono dubbi che la questione dei motivi per il comportamento
tedesco ha più di una risposta, perché sull'evidente trattamento
avvilente da parte dei tedeschi influirono numerosi fattori, tra
cui soprattutto elementi storici ed altri legati alla situazione
del momento particolare.
Però tutti i fattori tradizionali o convenzionali che siano non
possono spiegare la dimensione della tragedia. Personalmente sono
convinto che causa della vendetta - spesso micidiale - ed in particolare
dell'abbassamento della soglia dello scrupolo nei confronti dell'uccisione
degli italiani furono anche i principi ideologico-razzisti del regime
hitleriano; cioè, oltre a tutti gli altri moventi, dobbiamo prendere
in considerazione una spiccata motivazione razzista che nacque
molto prima dell'8 settembre.
Mi spiego con alcuni esempi: Può essere provato che, dal dicembre
del '40, Hitler e la sua cerchia motivarono le loro pretese verso
l'Italia insinuando ad una decadenza razziale degli italiani che
essi ritenevano fosse la vera causa del tramonto del Paese come
grande potenza. Già nel luglio del '4l l'ambasciatore italiano a
Berlino informo il Ministero degli Est,eri a Roma "che le autorità
germaniche - impaurite dal "pericolo di una vera epidemia di matrimoni
misti" volevano "ad ogni costo evitare" gli sposalizi tra italiani
e tedeschi. A Roma il vero motivo di questa preoccupazione dell'alleato
era palese: la paura dei capi nazisti di insudiciare il sangue tedesco.
Poi, nell'estate del '44, il Capo della Cancelleria del Partito,
Nartin Bormann, diede infatti disposizione ai capi dei vari di-
stretti del Reich perché fossero segretamente, ma incondizionatamente
vietati rapporti intimi fra donne tedesche ed uomini italiani che
altrimenti avrebbero compromessa "la purezza del sangue tedesco".
Dato il fatto che la Germania era ufficialmente ancora alleata della
Repubblica di Salo, Bormann non poteva - cosa che avrebbe preferito
- sancire la proibizione con una legge, ma doveva accontentarsi
dell'intimidazione alle donne. La collocazione degli italiani tra
gli appartenenti ad una razza inferiore e dimostrata anche nel fatto
che gli internati militari erano classificati al di sotto dei prigionieri
di guerra affini per razza ai tedeschi. L'ideologia razzista si
manifesto inoltre nella previsione di imporre agli italiani - dopo
la vittoria tedesca - il rango di un popolo di lavoratori disarmati.
Tutto ciò prova quanto il sentimento razzista influenzo il comportamento
nei confronti degli italiani. Si trattava certamente di un razzismo
non paragonabile a quello che ha portato al genocidio commesso verso
gli ebrei. Quello manifestato nei confronti degli italiani fu un
razzismo che non intese lo sterminio, bensì il declassamento nazionale,
ma che ciò nonostante strappo via migliaia di vite umane. Fu un
razzismo che si diffuse dal vertice del Terzo Reich - da dove vennero
emanati gli ordini criminali - fino al livello dell'uomo della strada.
Non per caso gli italiani diventarono nel linguaggio e nel giudizio
tedesco di allora "schiavi", "pezzi", "porci" "canaglie" o "esseri
inferiori" la cui vita aveva un valore abbastanza basso. Riguardo
a ciò conviene ricordare un evento - rimasto stranamente ignoto
fino al '90 - che si potrebbe definire emblematico. Nel novembre
del '43 un tenente tedesco uccise per ordine dei suoi superiori,
in Albania, 59 ufficiali italiani - ammalati di malaria e assolutamente
innocenti - con un colpo alla nuca, solo perché il loro trasporto
creava qualche difficoltà. Ed egli motivo l'esecuzione del delitto
in maniera davvero significativa, affermando: "Si tratta soltanto
di italiani!" In questa frase si manifesta un disprezzo razziale
che rese fra l'altro possibili i veri e propri massacri dell'ultima
ora dello Stato hitleriano: eccidi che costarono la vita di circa
600 italiani e che furono inscenati in parte come orge di sangue
dai fanatici sostenitori del regime nazionalsocialista.
Permettetemi di concludere con una osservazione generale. Nel consuntivo
storico del dominio nazista e di quello fascista gli internati militari
non hanno trovato ne in Germania ne in Italia il posto al quale
avrebbero avuto diritto per il loro comportamento e per quel vero
e proprio martirio fisico e morale patito nei Lager tedeschi. Un
martirio che non hanno "vissuto come i bruti", scrive Guareschi,
e continua: "Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame,
la sporcizia, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme
e dei nostri figli, il cupo dolore per l'infelicità della nostra
t.erra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere
uomini civili, uomini con un passato e un avvenire." Fu proprio
cosi. Ed anche per questa ragione desta meraviglia che nell'insieme,
dopo aver subito tradimento, disprezzo, maltrattamenti e migliaia
di morti, si sia steso su di loro - soprattutto in Germania - per
troppo tempo un velo di immeritato silenzio. Perché, mentre in Italia
- dove sono stati pubblicati i loro vari scritti, diari e ricordi,
dove si registra da anni un interesse scientifico al tema, dove
esiste l'A.N.E.I. ed è stato concesso un numero elevato di ricompense
al valore - gli internati almeno venivano e vengono ricordati, lo
stesso non può dirsi per la Germania.
Ci si scontra - per guanto concerne i prigionieri italiani, ma non
solo questi uomini - con un'ignoranza che a stento appare comprensibile.
Gli storici tedeschi ignorarono infatti per molto tempo ed in gran
parte ignorano ancora quasi tutti gli avvenimenti accaduti in Italia
dopo il settembre del '43. Riguardo a ciò sembra degno di nota il
fatto che, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'uscita
dalla guerra dell'Italia, due giornali stimati - il quotidiano conservatore
Frankfurter Allgemeine Zeitung ed il settimanale liberale Die Zeit
- hanno pubblicato lunghi articoli che parlarono, fra l'altro, di
tante cose banali, ma non fecero nessun cenno sui crimini di guerra
commessi dalla Wehrmacht in Italia, sugli internati militari, sulle
sofferenze della popolazione sotto l'occupazione tedesca, in particolare
nell'ambito delle famigerate rappresaglie, e sulle circa 97.000
vittime italiane della tirannia nazista, tra cui come minimo 45.000
internati militari. Cioè che tutti i giorni nel periodo dall'uscita
dalla guerra dell'Italia fino alla resa della Wehrmacht nel Sud,
il 2 maggio del '45, morirono per mano tedesca - sia in modo diretto
o indiretto - 162 italiani." bambini, donne ed uomini di ogni età.
Come si spiega tale disinteresse? Conviene interpretarlo come espressione
di un processo collettivo di rimozione o come tentativo di mettere
a tacere, eventualmente per motivi di opportunismo politico, una
verità storica sgradita. Si deve forse richiamare in causa una certa
arroganza o un persistente dispregio verso l'ex alleato? Comunque,
in ogni caso bisogna riflettere se nell'interpretare il fenomeno
della dimenticanza del tema sul trattamento degli internati militari,
e di tanti altri italiani, da parte dei tedeschi dopo l'8 settembre
non si debba tener conto delle influenze - probabilmente non coscienti
- di un passato comune irto di difficoltà.
Io potrei capire una tale ripercussione dell'elemento storico, considerando
che e sicuramente difficile e doloroso per qualche tedesco accettare
la realtà storica. Ma nel caso che sia cosi, sarebbe consigliabile
ricordare il vecchio detto ebreo che il "segreto della liberazione
si chiama memoria".
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