Avvenimenti: Mostre
Una storia dimenticata: la deportazione e lo
sfruttamento degli italiani nella Germania nazista
A partire dal 1939 la Germania nazista ha condotto una guerra
d'aggressione che ha portato all'occupazione dei paesi conquistati,
accompagnata da un sentimento razzista che ha motivato l'asservimento
delle popolazioni, la loro deportazione e impiego come manodopera
schiavizzata.
Il ritorno della schiavitù nel corso dell'ultima guerra
(in Asia ad opera dei giapponesi) ha coinvolto milioni di
militari e civili, catturati e rastrellati in larga parte
nell'est Europa, con una totale privazione di diritti che
anche gli italiani hanno verificato sulla loro pelle.
Il 25 luglio con l'arresto di Mussolini, il re e le classi
dirigenti avevano deciso di interrompere una complicità
ventennale con il fascismo che aveva significato l'oppressione
degli italiani, la conquista dell'Etiopia, l'intervento contro
la Spagna repubblicana, l'alleanza con la Germania nazista
in una guerra d'aggressione in Francia, Africa, Grecia, Russia
con tutto il suo carico di sconfitte militari e tragedie individuali.
Gli esiti disastrosi della guerra, la perdita della Sicilia
e lo sbarco sul continente in Calabria, portarono al tentativo
della monarchia di separare le proprie responsabilità
e ad avviare trattative con gli alleati per la resa.
La drammatica storia della deportazione degli italiani nella
Germania nazista prende l'avvio con l'annuncio via radio dell'armistizio
da parte del maresciallo Badoglio la sera dell'8 settembre
1943. Gli avvenimenti delle ore immediatamente successive:
il completo tracollo dell'intero esercito, l'occupazione da
parte delle truppe tedesche del centro e nord Italia, gli
sbarchi alleati a Salerno e in Puglia e la guerra combattuta
sulla penisola sono gli esiti della alleanza disastrosa con
la Germania nazista.
Una nazione prostrata da lutti, bombardamenti e fame ascolta
le parole di Badoglio e solo per un attimo si illude che la
guerra sia finita. L'abbandono di Roma da parte del re, dei
ministri e dello Stato Maggiore dell'esercito e la fulminea
azione della Wehrmacht con l'operazione Achse (Asso), precipitano
il Paese in una delle più difficili situazioni della
sua storia.
I tedeschi si erano preparati all'evento sin dal luglio, e
avevano inviato in Italia 15 nuove divisioni in aggiunta alle
3 già presenti. Gli italiani si trovano soli davanti
agli avvenimenti che precipitano e sono costretti a forme
di adattamento alle nuove drammatiche condizioni, a scelte
decisive che attingono nel profondo della storia della nazione,
delle aspettative morali e civiche degli individui.
Gli esiti dell'armistizio colgono di sorpresa i militari italiani
nella penisola, nel sud della Francia, nei Balcani, in Grecia.
L'assenza di un piano coordinato di azione, la vaghezza dei
pochi ordini, il venir meno dei comandi superiori, portano
in breve allo sfascio delle forze armate.
Lo sbarco alleato a Salerno è vigorosamente contrastato
dalle truppe di Kesserling, mentre le rimanenti divisioni
provvedono al disarmo, in Italia e all'estero, di un milione
di militari, all'occupazione dei principali centri del Paese,
alla realizzazione di un ricchissimo bottino di guerra in
armamenti e articoli di casermaggio.
In Italia gli episodi di resistenza sono isolati. A Roma militari
e cittadini combattono per ventiquattro ore, mentre il re
e lo stato maggiore abbandonano la capitale e l'esercito a
un duro destino.
Combattimenti si accendono al Brennero, a Piombino e all'Elba,
in Corsica, ai confini con la Francia, qua e là per
l'Italia ad opera di isolati reparti, ma si tratta di bagliori.
Molti militari sfuggono alla cattura con l'aiuto determinante
della popolazione.
Drammatica è la situazione nei Balcani dove intere
divisioni resistono in armi per alcuni giorni ai tedeschi.
Oltre 20.000 sono i caduti, centinaia gli ufficiali fucilati
dopo la cattura.
La resistenza accanita di Corfù e Cefalonia si conclude
con il massacro di oltre 5.000 militari da parte della Wehrmacht,
la Una nazione prostrata da lutti, bombardamenti e fame ascolta
le parole di Badoglio e solo per un attimo si illude che la
guerra sia finita. L'abbandono di Roma da parte del re, dei
ministri e dello Stato Maggiore dell'esercito e la fulminea
azione della Wehrmacht con l'operazione Achse (Asso), precipitano
il Paese in una delle più difficili situazioni della
sua storia.
I tedeschi si erano preparati all'evento sin dal luglio, e
avevano inviato in Italia 15 nuove divisioni in aggiunta alle
3 già presenti. Gli italiani si trovano soli davanti
agli avvenimenti che precipitano e sono costretti a forme
di adattamento alle nuove drammatiche condizioni, a scelte
decisive che attingono nel profondo della storia della nazione,
delle aspettative morali e civiche degli individui.
Gli esiti dell'armistizio colgono di sorpresa i militari italiani
nella penisola, nel sud della Francia, nei Balcani, in Grecia.
L'assenza di un piano coordinato di azione, la vaghezza dei
pochi ordini, il venir meno dei comandi superiori, portano
in breve allo sfascio delle forze armate.
Lo sbarco alleato a Salerno è vigorosamente contrastato
dalle truppe di Kesserling, mentre le rimanenti divisioni
provvedono al disarmo, in Italia e all'estero, di un milione
di militari, all'occupazione dei principali centri del Paese,
alla realizzazione di un ricchissimo bottino di guerra in
armamenti e articoli di casermaggio.
In Italia gli episodi di resistenza sono isolati. A Roma militari
e cittadini combattono per ventiquattro ore, mentre il re
e lo stato maggiore abbandonano la capitale e l'esercito a
un duro destino.
Combattimenti si accendono al Brennero, a Piombino e all'Elba,
in Corsica, ai confini con la Francia, qua e là per
l'Italia ad opera di isolati reparti, ma si tratta di bagliori.
Molti militari sfuggono alla cattura con l'aiuto determinante
della popolazione.
Drammatica è la situazione nei Balcani dove intere
divisioni resistono in armi per alcuni giorni ai tedeschi.
Oltre 20.000 sono i caduti, centinaia gli ufficiali fucilati
dopo la cattura.
La resistenza accanita di Corfù e Cefalonia si conclude
con il massacro di oltre 5.000 militari da parte della Wehrmacht,
la della guerra criminale di aggressione e dominazione che
ha portato alla deportazione da tutta Europa di oltre 12 milioni
di schiavi.
Per il trasporto in Germania, nella maggior parte dei casi,
vengono utilizzati carri bestiame chiusi, dove i prigionieri
sono ammassati in oltre quaranta per vagone.
Nelle stazioni di transito, a Mantova, a Bolzano la popolazione
che si affolla sui binari riesce a passare qualche alimento
di conforto ai prigionieri, raccoglie i messaggi per i famigliari.
Nel corso del lungo trasferimento dai Balcani i militari italiani
riescono a scambiare con le popolazioni locali oggetti personali
in cambio di cibo. Per i più sfortunati il viaggio
dura fino a quindici giorni, poiché i treni, entrati
nel territorio del Reich non hanno più precedenza assoluta
e rimangono fermi sui binari morti. Talvolta sostano in aperta
campagna per permettere i bisogni fisiologici, ma in molti
casi i vagoni non vengono aperti fino a destinazione, costringendo
i prigionieri a condizioni degradanti.
La fame e soprattutto la sete sono lancinanti. Anche il freddo
si fa sentire nei corpi di chi, catturato sulle rive del Mediterraneo
indossa divise estive. Riserve alimentari, vestiario e coperte
sfuggiti alle requisizioni della cattura e del viaggio saranno
decisivi per affrontare il lager. Sentinelle armate vigilano
sui vagoni, i tentativi di fuga sono difficili e pericolosi,
e a qualcuno costano la vita.
Dopo i convulsi e confusi momenti della cattura il viaggio
è il contesto della presa d'atto della realtà
della prigionia nel disorientamento collettivo. Angoscia e
frustrazione colpiscono indistintamente veterani con anni
di guerra sulle spalle e giovani, appena usciti dalla famiglia,
chiamati alla leva a fine agosto del '43.
L'arrivo in Germania, nel primo freddo dell'autunno tedesco,
spalanca le porte dei lager, distribuiti sull'intero territorio
del Reich, che raccolgono prigionieri di tutte le nazionalità
che memori delle avventure fasciste, "accolgono"
gli italiani come nemici.
I tedeschi sono brutali e riversano sui militari un disprezzo
carico di razzismo per il tradimento dell'alleanza. Durante
il trasferimento dalle stazioni ai campi di concentramento
i "badogliani" misurano l'odio della popolazione
fomentato dalla propaganda del regime.
Gli italiani devono apprendere rapidamente gli ordini in tedesco
e lo scandire del tempo del lager, fatto di brusche sveglie,
di interminabili appelli, di frustranti file per lavarsi e
per un misero rancio.
Nei lager di raccolta e smistamento viene loro assegnato un
numero, vengono fotografati e schedati. Il lager è
spersonalizzazione, fame, freddo, carenza di condizioni igieniche
elementari, luogo dove si sviluppano malattie, dove prolifera
la tubercolosi che diviene una delle prime cause dei decessi
fra gli italiani.
I militari di truppa vengono separati dagli ufficiali che
sono destinati agli Oflag. Molti sono inviati nei lager della
Polonia come Deblin, Czestochov, Benjaminow.
Ben presto gli italiani si accorgono di essere abbandonati
a se stessi. I prigionieri alleati ricevono pacchi e corrispondenza
e sono assistiti dalla Croce Rossa, che garantisce un controllo
sulle condizioni della prigionia.
Ai militari italiani non viene riconosciuto lo status di prigionieri
di guerra, essi vengono dunque esclusi dai benefici della
Convenzione di Ginevra (condizioni, assistenza, controlli,
corrispondenza, regolamentazione del lavoro, divieto d'impiego
nella produzione bellica).
Per ordine di Hitler gli italiani vengono classificati come
Internati Militari (I.M.I.), uno status improprio, uno stravolgimento
del diritto umanitario di guerra.
Con questo artificio i tedeschi hanno mano libera nel loro
trattamento e nel massiccio impiego nelle fabbriche del Reich.
Gli IMI sono posti sotto la sorveglianza della Wehrmacht che
li distribuisce in lager presenti in tutti i distretti militari
della Germania e dell'Austria e in particolare in quelle zone
(bacino del Reno, Amburgo, Bassa Sassonia, Berlino, Turingia)
dove maggiore è la concentrazione industriale. La Wehrmacht
si occupa della loro sorveglianza e affitta la loro forza
lavoro.
Sono di questo periodo (tardo autunno del '43, ma proseguono
fino alla primavera successiva) le richieste di adesione da
parte di esponenti della Repubblica Sociale. La Rsi, nata
il 23 settembre, è una creatura dei tedeschi e senza
reale autonomia.
Il tentativo del maresciallo Graziani di costituire un esercito
da schierare al fianco dell'alleato (che guarda senza partecipazione
alla campagna d''arruolamento che sottrae lavoratori al Reich),
è l'ultima azione di Mussolini per rientrare nel gioco
della guerra e della politica italiana.
Funzionari dell'ambasciata di Berlino, gerarchi e ufficiali
collaborazionisti visitano i lager degli IMI.
Nelle "Appellplatz" i militari italiani sentono
i richiami alla guerra di civiltà, retribuita con divise
pulite, cibo, possibilità di rientro in Italia, ma
non cedono alle lusinghe e alle minacce che premono sulle
drammatiche condizioni della prigionia.
La generazione operaia e contadina, educata nella scuola fascista,
trova la forza e la dignità di opporre nella quasi
totalità (circa l'86%), un secco "NO" alla
guerra fascista, all'eventualità di essere impiegata
in un conflitto fratricida. Più alta la percentuale
di chi aderisce fra gli ufficiali (circa il 20%).
Gli "optanti" sono immediatamente separati e avviati
ai campi di addestramento dove vengono formate quattro divisioni
destinate a tornare in Italia nel 1944 per essere impiegate
contro le forze della Resistenza.
Nei grandi campi di concentramento, dove si trovano migliaia
di ventenni ufficiali di complemento, la Resistenza dà
un senso alla prigionia, porta alle discussioni, allo studio,
all'organizzazione di un'attività culturale e di intrattenimento,
alla creazione di reti di informazione e comunicazione.
Il lungo tempo della prigionia è colmato a Sandbostel,
a Wietzendorf dagli incontri di uomini che già pensano
al domani, fanno esperienza di democrazia, pongono le basi
della Costituzione.
La fedeltà alla monarchia si accompagna alla presa
di distanza di chi si è sentito abbandonato nei giorni
di settembre. Più forte di tutto è l'idea di
una fedeltà ad una patria da ri-costruire.
La scarsità delle adesioni alle forze fasciste della
Repubblica sociale permette ai tedeschi di usare pienamente
il capitale umano in loro possesso.
Nelle "Appellplatz" è ora il turno dei mercanti
di schiavi. Industriali, artigiani, agricoltori, convergono
al lager per scegliere la forza lavoro di cui soppesano le
qualità.
L'intento è quello di valorizzare le professionalità:
alla produzione servono operai specializzati. Il progetto
dà scadenti risultati per la concorrenza fra i datori
di lavoro, per una certa disorganizzazione che coglie anche
i tedeschi, per le difficoltà della lingua, per l'atteggiamento
degli italiani poco disposti a collaborare.
Così c'è chi si dichiara contadino perché
ha capito, (spera e sarà così) di avere in campagna
meno problemi di sostentamento, chi si dichiara manovale generico
per non essere separato dagli amici.
La Wehrmacht stringe contratti con le grandi imprese private
metallurgiche e meccaniche che producono armamenti, con le
ferrovie, con le miniere alle quali vengono destinati i più
robusti fra i prigionieri. La distribuzione della forza lavoro
internata risulta comunque abbastanza casuale.
Gli italiani vengono impiegati anche nell'edilizia, nell'agricoltura
e nell'industria alimentare. Migliaia rimangono a disposizione
della Wehrmacht e vengono utilizzati nello sgombero delle
macerie o nella costruzione del vallo difensivo orientale.
Una siffatta distribuzione della manodopera è legata
alla presenza di migliaia di lager di fabbrica, rigidamente
sorvegliati, in cui confinare gli internati.
E' la solita litania del lager fatta di squallore e spersonalizzazione,
di pidocchi e strategie di sopravvivenza, di freddo e soprattutto
fame. E' un'inedia interrotta raramente dai miseri pacchi
che arrivano a destinazione in modo fortunoso, sfuggendo alla
guerra e alle requisizioni.
La povera corrispondenza è privilegio solo di chi ha
la famiglia nella parte d'Italia sotto il controllo dei tedeschi;
per chi abita al di là del fronte (praticamente tutta
l'Italia centro meridionale) le comunicazioni sono impossibili.
La fabbrica spezza l'isolamento del lager, con la marcia sotto
scorta la mattina e la sera, con le 10 -12 ore di lavoro al
giorno che sono pesanti, ma talvolta offrono opportunità
di fugaci comunicazioni con altri deportati e con gli stessi
operai tedeschi. Anche nei lager avvengono scambi con i prigionieri
di altre nazionalità e con le guardie, si sviluppa
un misero mercato nero.
La diffusa presenza dei lager di fabbrica nelle città
e nelle regioni del Reich, significa anche difformità
delle condizioni del lavoro e del regime di coercizione. Così,
nell'esperienza degli IMI, a situazioni drammatiche fatte
di violenze, soprusi e logoramento, si contrappongono condizioni
di prigionia e di sfruttamento più accettabili. In
generale comunque per tutto il corso della prigionia gli italiani
subiscono il disprezzo venato di razzismo dei tedeschi, che
dà spazio alle ingiustizie arbitrarie e alle violenze,
anche se non mancano episodi di solidarietà umana destinati
a crescere nel corso della guerra.
Le razioni destinate agli IMI sono decisamente sotto il fabbisogno
calorico. Denutrizione e deperimento, precarie condizioni
igieniche, aprono la strada a nuove epidemie, minano fortemente
le stesse capacità produttive degli internati.
Per gli IMI la malattia è prima di tutto la paura di
un'eliminazione che appare inevitabile nel momento in cui
si è inutili alla produzione.
Così si nascondono i sintomi, ci si cura in baracca,
si ricorre all'aiuto dei compagni. I pochi sacerdoti cui è
concesso di portare assistenza religiosa e umana, cui è
permesso di vedere più lager e dunque di misurare la
vastità della tragedia, riportano l'immagine di una
situazione diffusa di sofferenza che trova il suo estremo
negli squallidi campi ospedale come Fullen, come Zheitain
dove operano generosamente medici che, in assenza di strumenti,
medicinali, letti, condizioni igieniche elementari, condividono
con i malati il degrado del lager, lazzaretti in cui si consumano
centinaia di giovani esistenze.
La gran parte dell'apparato industriale civile è
stato convertito nella produzione militare che assorbe il
lavoro di milioni di schiavi separati rigidamente fra di loro;
costretti a produrre, sotto i bombardamenti alleati, gli armamenti
per ribaltare una guerra che la Germania sta perdendo.
I proprietari delle fabbriche si arricchiscono a spese dello
stato tedesco di cui assecondano la politica sfruttando la
manodopera semigratuita, spremendola fino alla consunzione
nei casi più estremi (ebrei e nemici del Reich). Versano
alla Previdenza tedesca i contributi sociali che assicurano
agli IMI una parvenza di assistenza sanitaria. Le fabbriche
si chiamano Krupp, Ig Farben, Auto Union, Daimler Benz, Siemens,
Aeg, Volkswagen, Claas ecc
Gli IMI ricevono uno stipendio figurativo, cui vengono detratti
i denari per il mantenimento nel Lager (cibo, pernottamento).
Quel poco che "resta attaccato" alla busta paga
(quando c'è) non verrà mai rimborsato né
spedito alle famiglie. In parecchi casi il salario assume
le vesti tangibili dei "Lager mark", carta moneta
spendibile solo nello spaccio del lager che distribuisce fondamentalmente
sapone, tabacco e a volte birra.
Il bisogno di manodopera aveva già portato in Germania
300.000 lavoratori italiani fra il 1938 e il 1943. Il fascismo
aveva incoraggiato con una forte propaganda quella forma di
emigrazione. Le invitanti offerte del Reich garantivano salari
e condizioni come quelle dei lavoratori tedeschi.
I lavoratori erano la merce di uno scambio con il carbone
e le materie prime indispensabili alle nostre industrie. La
situazione degli stessi volontari cambiò in modo significativo
dopo l'otto settembre del 1943: oltre al peggioramento del
trattamento fu loro impedito il rimpatrio.
I militari catturati dopo l'8 settembre costituiscono una
riserva preziosa, e i piani di Fritz Sauckel, Plenipotenziario
per la manodopera del Reich, prevedono la deportazione di
un milione e mezzo di italiani.
L'occupazione tedesca della penisola non è solo furto
di materie prime, di beni di consumo, di manufatti industriali,
di intere fabbriche, di tesori del patrimonio artistico, ma
è anche razzia di forza lavoro. Dal settembre del '43,
i tedeschi rastrellano i civili, per mandarli in Germania
o per impiegarli al servizio dell'esercito. Sulle popolazioni
dell'alta Campania e del basso Lazio si abbattono le violenze
della guerra totale fatta di deportazioni ed eccidi. Episodi
che si ripetono sino all'autunno del '44 sugli Appennini.
Alla fine del 1943 la stabilizzazione della guerra e dell'occupazione
tedesca, il pieno controllo dell'apparato industriale italiano,
spingono Speer, ministro degli armamenti e della produzione
di guerra, , all'abbandono dei propositi di trasferimento
in Germania delle maggiori fabbriche italiane e dei loro lavoratori.
L'Italia è considerata territorio di guerra attraverso
cui difendere il territorio del Reich, un paese da spogliare
e sfruttare fino in fondo, ma non da distruggere.
Anche la Wehrmacht e la Todt, che impiegano manodopera in
Italia, si oppongono alle intenzioni di deportazioni di massa
che rischiano di irrobustire le formazioni partigiane che
già raccolgono chi fugge ai minacciosi bandi d'arruolamento
dei fascisti repubblicani.
Il progressivo fallimento della campagna per la raccolta di
volontari del lavoro in Germania e le necessità impellenti
dell'apparato produttivo tedesco fanno sì che la precettazione
e deportazione dei civili, la caccia agli schiavi (come la
definiscono gli stessi tedeschi) ad opera di organizzazioni
tedesche facenti capo a diversi ministeri del Reich, prosegua
come uno stillicidio fino alla fine del 1944.
Con il fattivo aiuto delle milizie, dei sindacati, delle istituzioni
della Repubblica sociale, attraverso retate improvvise nelle
città, rastrellamenti delle zone attraversate dal fronte,
con le precettazioni di contingenti operai delle fabbriche,
vengono deportati decine di migliaia di italiani.
I civili deportati per essere impiegati come lavoratori coatti,
alla fine risultano fra i 70 e i 100.000, un numero difficile
da precisare per la complessità della loro vicenda,
ma assai lontano dai propositi di Sauckel.
I repubblichini sono direttamente coinvolti e partecipi nella
deportazione dall'Italia dei prigionieri alleati affidati
nelle mani della Wehrmacht, e soprattutto degli ebrei e dei
nemici della Germania (operai in sciopero, partigiani, antifascisti)
destinati ai KZ. Questi sono vere e proprie anticamere dell'inferno,
dove le selezioni eliminano preventivamente chi non è
in grado di produrre e le aspettative di vita non superano
i tre mesi.
I KZ come gli AEL (campi di rieducazione e punizione) e i
loro campi dipendenti sono gestiti con fanatismo criminale
dalle Ss e sono il destino anche dei militari puniti per la
loro insofferenza e ribellione.
Su circa 40.000 deportati politici "nemici dell'Europa"
oltre il 90% moriranno in questi lager.
Non diversa è la condizione degli schiavi in altre
zone come a Kahla in Turingia dove sorge in pochi mesi un
campo di lavoro costituito attorno a gallerie nella montagna
in cui si assembla l'aereo a reazione che dovrebbe rivoluzionare
la guerra e dove finiscono molti civili rastrellati e contingenti
di IMI.
Nell'agosto del '44 un accordo fra Hitler e Mussolini porta
alla smilitarizzazione degli IMI e al loro passaggio a lavoratori
civili.
L'accordo è importante per Mussolini, che cerca di
accreditarsi agli occhi degli italiani e di rilanciare il
suo ruolo e per gli stessi tedeschi che constatano la sempre
minore produttività degli IMI detenuti in condizioni
miserevoli.
Il passaggio di status è dapprima chiesto, poi viene
sbrigativamente imposto a tutti. Chi rifiuta il passaggio
a civile resta nei lager che passano sotto la giurisdizione
delle SS di Himmler. La Wehrmacht passa in consegna gli ex
IMI alla polizia locale; ai prigionieri sono consentiti piccoli
spostamenti al di fuori del lager. Il cambio di status nella
sostanza non migliora le condizioni di vita degli internati
che si trovano a fare i conti, come gli stessi tedeschi, con
la crescente penuria alimentare, col progressivo tracollo
della Germania nazista.
Il passaggio a "civili" comporta l'obbligo del lavoro,
cui restano esclusi i soli ufficiali superiori.
La smilitarizzazione è cruciale nel mettere alla prova
i campi dove sono rinchiusi migliaia di giovani ufficiali,
in buona parte di complemento, che per lo più sino
alla primavera del '44 erano stati esonerati dal lavoro.
Episodi di resistenza al lavoro accompagnano le vicende di
gruppi di giovani ufficiali che per questo vengono minacciati,
sono vittime di violenze, vengono condannati ai lager di punizione
e ai KZ.
La resistenza nel lager si nutre delle notizie della guerra
che filtrano attraverso geniali radio clandestine e di quanto
sempre più frequentemente fanno capire gli stessi tedeschi.
Gli episodi di sabotaggio sono difficilmente documentabili,
ma aumentano come i segnali del crollo in cui la Germania
sta precipitando.
I bombardamenti alleati raggiungono una violenza inaudita,
intere città vengono rase al suolo, i bunker non bastano
e sono spesso interdetti ai lavoratori schiavi; i lager di
fabbrica vengono spazzati via assieme ad interi reparti.
E' un momento di grande confusione, di fughe, di violenza
che coinvolge direttamente anche gli italiani. A Hildesheim,
a Kassel, si consumano stragi ai danni di militari italiani
impiccati nella piazza del Municipio, o fucilati da giovanissimi
della Volksturm per aver raccolto cibo disperso dai bombardamenti.
A Treuenbrietzen nei pressi di Berlino 150 militari sono fucilati
perché ricatturati dai tedeschi dopo essere stati liberati
dai Russi.
Queste vicende sono note perché ne hanno parlato i
sopravvissuti. Di altre stragi compiute a fine guerra restano
flebili testimonianze.
A Wietzendorf, Kahla, Dora solo il caso, o il rifiuto del
comandante tedesco, non scatena una carneficina finale programmata.
La liberazione è storia di questa terra di nessuno
fatta di grandi silenzi e squassanti rumori di guerra, al
cui orizzonte appaiono improvvisamente i militari alleati.
E' prima di tutto liberazione dalla fame che ha ridotto il
peso corporeo dei più intorno ai 40 chili.
L'assistenza, la sistemazione, il rimpatrio di milioni di
uomini e donne dalla Germania sconfitta è uno dei primissimi
compiti di cui devono occuparsi gli alleati, impegnati immediatamente
dopo la capitolazione a disegnare i confini dei settori d'occupazione.
Le altre nazioni organizzano rapidamente i rimpatri. Per gli
italiani si muove solo l'Opera Pontificia, ma ci vorrebbe
ben altro.
C'è chi torna autonomamente a casa affrontando un viaggio
carico di vicissitudini, chi torna alla baracca nel lager
in attesa del rimpatrio, c'è chi viene impiegato come
manodopera dalle truppe alleate, in particolare dai russi
che ne trattengono migliaia per mesi.
La gran parte rientra dal Brennero o da Chiasso entro la fine
di settembre del 1945.
Circa 50.000 sono i morti, sepolti in piccoli cimiteri, nelle
fosse comuni, sotto le macerie nei più sperduti angoli
della Germania.
Molti sono quelli che arrivano in Italia in condizioni penose,
sconosciuto il numero dei deceduti dopo il rientro, come quello
di coloro che restano segnati nel fisico e nella mente.
E' un'accoglienza piena di sospetto e di imbarazzo, quella
che l'Italia riserva ai reduci dalla Germania: subiscono un
interrogatorio nei distretti militari, si teme possano accampare
richieste. Alcuni vengono obbligati a prestare di nuovo il
servizio militare.
Nell'Italia liberata gli IMI si disperdono. L'esperienza del
lager e del lavoro coatto ne aveva fatto un soggetto collettivo.
Al rientro ognuno torna alla sua realtà individuale,
nei mille paesi d'Italia. La nazione ha fretta di guardare
avanti e di dimenticare la guerra, non ha tempo né
voglia di pensare ai reduci (sempre scomodi in tutti i dopoguerra),
soprattutto a quelli dalla Germania, che chiamano in causa
troppe responsabilità
. Meglio dimenticare queste vicende, non parlarne più.
Solo la memorialistica, l'ostinazione di pochi reduci sopravvive
al lungo e pesante periodo della ricostruzione.
Deportazione, internamento, lavoro coatto degli italiani finiscono
in secondo piano di fronte al dramma della guerra totale che
ha coinvolto eserciti e popolazioni civili, di fronte alla
grande tragedia della Shoah.
Le carenze della storiografia discendono in primis dalla difficoltà
della società italiana del dopoguerra, già immersa
nelle rigidità e opportunità della guerra fredda,
a confrontarsi con il fascismo e la sua guerra, con l'otto
settembre e la Repubblica sociale italiana, con la pulizia
etnica perseguita in Slovenia, con le stragi tedesche sugli
Appennini.
Se agli antifascisti (dei quali moltissimi non tornarono)
giunge negli anni '70 un riconoscimento tardivo, ben diversa
è la condizione in cui si sono trovati gli IMI sopravvissuti
a quell'inferno.
In questi sessant'anni nessun governo ha saputo e voluto indagare
su queste vicende, quantificarne i numeri, ricostruirne la
storia.
Posizioni e pronunciamenti pur autorevoli non sono stati sufficienti
a portare ad un riconoscimento istituzionale, all'accettazione
nel comune senso storico di questo paese delle vicende degli
IMI, della loro Resistenza alla guerra e ai fascismi, della
loro esperienza unica di crescita, riscatto civile e personale
a nome di un'intera nazione.
Questo lavoro, con cui abbiamo cercato di proporre le vicende
attraverso i racconti, disegni, documenti dei deportati italiani,
è il nostro contributo alla conoscenza e alla giustizia
per gli schiavi di Hitler.
Valter Merazzi,
Responsabile Centro di Ricerca
"Schiavi di Hitler/Fondo I.M.I. Claudio Sommaruga"
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