Avvenimenti: Mostre
Presentazione mostra:
La grave vergogna di esserci di menticati di loro. Di
Ricciotti Lazzero
Queste parole vengono da un mondo ed un tempo
lontanissimi.
Riemergono da confessioni di uomini quasi al tramonto, consegnate
alla memoria di generazioni
che non capiscono e non possono capire.
Perchè ci fu un tempo in cui tutto era miseria e la
parola più importante era "fame".
Era il tempo in cui i giovani partiti per una guerra che non
sentivano, pieni di forza, in carne,
usi a sacrifici fisici non indifferenti, in appena due anni
diventarono scheletri.
Quei giovani erano vissuti in paesi umili, ma festosi, adesso,
prigionieri, conoscono un cielo
plumbeo nel Lager dove li rinchiudono.
Le ragazze gli avevano sempre fatto festa, ora la popolazione
d'oltr'Alpe li sputacchia e li
insulta.
Ricevevano anche qualche carezza a casa, qui li bastonano
per pura cattiveria.
E poi li mandano in miniera a recuperare carbone o li rinchiudono
in galleria, dove si preparano
sotto le montagne i grandi spazi per gli stabilimenti bellici.
Li mandano nelle fonderie, nel lavoro tremendo di manovrare
i laminati di ferro o d'alluminio,
col compito, appena uscito dal forno il serpente infuocato,
di pulire in pochi secondi la bocca
rovente.
E' così tragico e terrificante questo entrare nel budello
ad una temperatura orribile che un
ragazzo siciliano si toglie di tasca il portafoglio e la foto
della famiglia, dandoli ad un compagno,
dice: "Mamma!" e si butta nel fuoco.
I compagni riusciranno soltanto a recuperare un mucchietto
di ossa.
In quel tempo infame restavano poche speranze ai giovani
prigionieri.
Certa fu, invece, la risposta negativa ad ogni sollecitazione
a collaborare con i nazifascisti.
"Germania, puoi bastonarmi, puoi torturarmi, puoi massacrarmi"
- scrisse nel suo diario
clandestino Giovanni Guareschi rinchiuso nel Lager - "ma
dentro di me sono libero, il pensiero
non riuscirai mai ad ucciderlo!".
E' una storia nuova quella che leggete, ha un suono diverso
dalle parole che ascoltate dappertutto,
oggi.
Sono visioni che nessuna televisione può presentare.
Leggetela con attenzione, e lentamente, in luoghi pieni di
silenzio.
Soltanto così, nel silenzio, a contatto da soli con
quelle voci che vengono da lontano, potrete,
forse, immaginare l'inferno in cui sono vissuti questi nostri
fratelli.
A qualcuno il suono delle parole che ci arrivano attraverso
questo libro potrà magari
apparire leggero, invece esse hanno il peso di un macigno.
Sembra quasi che questi sopravvissuti si vergognino di essere
riusciti ad uscire vivi dalla
Germania e, i più, minimizzano volontariamente i loro
patimenti.
Alcuni di loro sono contadini duri come la roccia, con poca
dimestichezza con carta e matita.
Sono tornati a casa da lassù e non hanno trovato un
Paese a riceverli, a molti è arrivata la
beffa di una cartolina-precetto perchè il Lager non
contava niente per i burocrati, a qualcuno
è stato aperto un procedimento, poi subito chiuso,
perchè dichiarato "disertore".
I ritornati da lassù si chiusero in se stessi, non
parlarono, non raccontarono nulla.
Avevano troppa dignità per affrontare gli altri che
festeggiavano la Liberazione e che spesso
ne approfittavano.
Tacquero anche con le mogli e con i figli, quasi vergognosi
di avere avuto un così triste passato,
e soltanto ora hanno trovato il coraggio di rompere con noi
quel muro che li separava dagli
altri.
Gli altri.
Che cosa sono gli altri che vanno ai Caraibi o alle Maldive,
che guidano automobili di grossa
cilindrata, che affollano i ristoranti e scelgono piatti prelibati
e costosi, rispetto a noi che
accettavamo quasi con voluttà una gavetta di brodaglia
calda ?
Così pensa chi attraverso questo libro porge la propria
memoria e invano attende da
cinquant'anni qualche aiuto per gli ultimi giorni.
Non urlano i sopravvissuti, non gridano, non minacciano.
Il suono delle loro parole può, talvolta, sembrare
lieve, sommesso, direi timido.
Penetra in chi ha cuore attraverso le fessure dell'anima,
e ferisce per la castità del tono.
Uomini di ferro ridotti a fantasmi, spesso distrutti per la
fame e le torture.
E cinquantamila rimasti per sempre lassù, in cimiteri
sparsi in quella Germania che era tutta un
immondo Lager.
Questi uomini avevano capito prima di tanti di noi cos'è
la dittatura.
Pur venendo da una generazione che il fascismo aveva creduto
di rendere guerriera con
canzoni, parate, cortei e che aveva frequentato una scuola
asservita al regime, intuirono subito,
da soli, che dovevano resistere ad ogni richiamo.
La democrazia - per molti di loro contadini -era il proprio
paese, tranquillo, sereno, senza
adunate e con la libertà di dire ciò che pensavano.
Anticiparono di due anni, nella prigionia, la democrazia da
tanto tempo perduta in Italia e,
guardando i soldati con la mitragliatrice e le fotoelettriche
nelle torri di sorveglianza, intuirono
la potenza malvagia del Tiranno.
Molti morirono impiccati nell'Appellplatz con i compagni costretti
a guardare e talvolta
un'orchestra - diciamo, meglio, una banda- di deportati che
suonava marce militari.
Molti morirono nelle gallerie in cui erano costretti a scavare,
tra gli escrementi e accanto ad
altri cadaveri.
Molti furono portati ai limiti di grandi fosse, allineati
e fucilati.
Molti esalarono il loro ultimo respiro nei Lager della morte,
i Lazarettlager, minati nel corpo
dalle malattie provocate dalla fame e divorati dai pidocchi.
Non di tutti questi uomini conosciamo i nomi.
I cimiteri che ho visitato in Germania sono pieni di croci
senza alcun segno.
La maggior parte delle "memorie" ci è stata
consegnata da ex deportati del Nord.
Il Centro-Sud è quasi assente, ed anche in ciò
si rivela il solco profondo che esisteva già
allora tra le due Italie.
Spesso, il livello di istruzione di chi veniva dal Sud, quale
risulta anche dai fogli matricolari
rilasciati dai Distretti, è oltremodo basso: in media
prima o seconda elementare, con apparizione
nel gruppo anche di analfabeti.
Salta all'occhio nell'esame delle schede il fatto che molti
-troppi- non sappiano dove sono
stati: nè la città nè la regione nè
la fabbrica.
Probabilmente continuavano la loro vita di braccianti o manovali,
legati sentimentalmente al
proprio paese e alla propria famiglia e tiravano a campare.
C'è chi scrive "Itler" ricordando a modo
suo il Fuhrer, chi pur essendo stato ad Auschwitz
scrive "Ausvis", chi scrive "Lagher",
chi dice semplicemente "Non ricordo nulla".
L'impressione che ne deriva è che molti abbiano accettato
quella tragedia con la stessa
rassegnazione delle dure giornate di lavoro nei campi o nelle
fabbriche in Italia.
La sistematica riduzione allo stato di bestialità attuata
dai tedeschi ha distrutto ogni sentimento,
e le reazioni sono quelle elementari di chi è solo
in balìa della sorte.
Pochi fanno ricorso alla fede.
Chi invoca la Madonna, chi recita il rosario, chi guarda il
cielo e pensa a qualcosa che non
viene, chi tenta di mettere il cuore nel piccolo spazio della
cartolina ma non è abituato a
scrivere, e quindi usa l'essenziale epistolario di tutti i
contadini.
"Cara moglie, io sto bene come spero di te".
E poi una domanda per le mucche che devono essere nutrite
e per i bambini che vanno a
scuola e "devono essere bravi".
Molti sono moribondi, ma non lo dicono.
La loro corrispondenza s'interromperà e in Italia i
familiari non ne sapranno più niente.
Quegli uomini entreranno nella schiera dei cinquantamila morti:
il nome degli ignoti lo sa
soltanto Dio.
Qualcuno riesce ad avvicinare qualche donna.
O una russa o una polacca di cui sono piene le fabbriche o
i campi, nascono intimità nuove
che allontanano il pensiero dalla casa italiana, qualcuna
di queste intimità si salderà in un
matrimonio il giorno della liberazione.
E noi nelle nostre schede abbiamo trovato parecchie testimonianze
di queste spose dell'Est.
L'approccio con le donne tedesche è pericoloso.
Una legge nazista proibisce ogni contatto perchè la
"Frau" tedesca deve restare incontaminata
e portare avanti la purezza della razza, e poi non mancare
di rispetto al marito al fronte.
Ma gli approcci avvengono lo stesso, l'uomo e la donna, quando
colti sul fatto, vengono
arrestati e condannati.
Parecchi italiani finiranno decapitati a Berlino-Plotzensee,
a Monaco Stadelheim ed a Dresda.
Il panorama che deriva da questa nuova miniera storica è
agghiacciante, ma serve a riempire
un buco nero nella storia di quegli anni ed invita a rivisitare
quanto si è scritto finora sul periodo
della Repubblica di Salò e sulle deportazioni.
Ci sono stati troppi silenzi, i politici del dopoguerra, anche
volutamente per opportunità diplomatiche, non hanno
prestato alcuna attenzione al dramma avvenuto al di là
delle Alpi, nelle
scuole non si è insegnato nulla.
Soltanto adesso troppi gruppi interessati a farsi un nome
cavalcano il movimento delle
rivendicazioni.
Io invito chi legge questo libro a meditare sulla vicenda
umana di questi nostri fratelli ed a
diffondere, come i maestri a scuola, la loro voce che racconta
quanto hanno sofferto.
E' il miglior contributo che possiamo dare nell'attesa che
lo faccia anche il nostro governo.
Non squilli di fanfare vogliono i sopravvissuti, ma un pensiero
pieno di rispetto, il "grazie" per
aver salvato la dignità di una nazione.
Per i morti con o senza nome un fiore ideale affinchè,
come si dice al cimitero al momento
dell'inumazione, "la terra sia loro lieve".
Perchè l'esserci tutti noi dimenticati di loro è
un peccato troppo grave.
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