Articolo della Repubblica del 28 febbraio 2001
La Memoria
Cefalonia, il viaggio di Ciampi per la strage dimenticata.
di Mario Pirani
Con la visita a Cefalonia Ciampi inserisce una tappa
essenziale nel viaggio ideale che ha intrapreso, ormai da qualche tempo,
con l'esplicita ambizione di sollecitare gli italiani ad un recupero del
senso della Nazione e della storia patria, di cui andrebbero condivisi
i grandi discrimini, pur nella diversità delle opzioni politiche odierne.
Per questo il presidente della Repubblica nelle visite precedenti a Piombino,
a S. Anna di Stazzena, a Trieste, tanto per ricordarne qualcuna, ha posto
al centro dei suoi interventi un discorso sulla Resistenza non celebrativo
né ripetitivo di una stanca vulgata, quanto di consapevole riflessione.
L'esigenza posta dal presidente della Repubblica trova a Cefalonia il
suo risvolto più esplicito. Per più di un motivo: perché qui si ebbe il
primo, grande episodio di resistenza italiana all'esercito nazista; perché
questa resistenza fu, ad un tempo, militare e popolare, in quanto decisa
da un referendum fra tutti i reparti della Divisione Acqui; perché, infine,
nell'isola jonica venne commesso uno sterminio di massa, senza paragoni,
per dimensione, nelle vicende che seguirono l'8 settembre. Eppure quell’episodio
che avrebbe dovuto scandire il punto d’inizio della Resistenza, subì il
velame di una memoria debole e non si inserì mai appieno nella cronologia
simbolica del cinquantennio repubblicano.
Solo l’iniziativa presa dal nostro giornale in merito, qualche anno orsono,
ruppe l’incantesimo negativo.
Il perché ha più di una spiegazione: la storiografia politica della Resistenza
fu ispirata dall’idea che questa fu un movimento nazional popolare, guidato
da una avanguardia politica, incentrata sulla alleanza dei partiti antifascisti,
organizzata nei Cln (Comitati di liberazione nazionale), con un netto
prevalere, peraltro, della sinistra, dal Pci al Partito d’azione.
Di conseguenza il ruolo delle Forze Armate (che rifulse non solo a Cefalonia
ma nell’Egeo, in Jugoslavia, in Corsica, a Barletta, a porta S. Paolo,
a Piombino, nei lager dell’internamento, nel ricostituito esercito del
Sud e, infine, nelle stesse formazioni partigiane, che erano comandate,
non a caso, dal generale Cadorna) venne messo in secondo piano.
Nell’immaginario collettivo la dimensione unitaria e nazionale della Resistenza
subì così un vulnus, che finì per imprimerle un profilo essenzialmente
di sinistra. Sul terreno politico le conseguenze furono diverse. Comunque
la legittimazione della Repubblica e la collocazione internazionale dell’Italia
nel dopoguerra trovarono nella Resistenza la base fondativa.
Il cosiddetto «arco costituzionale» è filiazione diretta dei Cln
ed esso assicurò non solo la stesura della Costituzione ma suggellò, sia
la formazione dei governi, sia il patto consociativo non scritto che regolò
per decenni i rapporti tra maggioranza e partito comunista all’opposizione.
In questo contesto il ricordo pubblico della Resistenza finì per disseccarsi
nella retorica ripetitiva delle celebrazioni ufficiali e per subire l’usura
delle vicende politiche.
Ma col venir meno del quadro partitico di riferimento, dopo Tangentopoli,
e con la crisi del partito comunista, dopo il crollo del muro di Berlino,
si è aperto un processo di contestazione anche delle basi fondanti della
Repubblica, giustamente individuate nel legame inscindibile tra Resistenza
e Costituzione.
Lo scontro ideale per l’egemonia culturale tra destra e sinistra si svolge
attorno a questo crinale. Le polemiche suscitate dal cosiddetto neo revisionismo
ne costituiscono uno dei momenti salienti. Ma anche qui occorre fare delle
distinzioni, in particolare attorno alla definizione della lotta di Liberazione
come guerra civile, tesi sostanziata da una ormai celebre e approfondita
disamina di Claudio Pavone.
Il quale peraltro, mentre ne affrontava gli aspetti tutti italiani (e,
perciò stesso, di certame finale tra fascisti e no) si guardava bene dal
confondere il giudizio tra i due fronti e dal negare il valore rifondativo
della Resistenza. Per quanti, invece, interpretano l’8 settembre come
punto d’avvio di un processo di «morte della Patria», che non avrebbe
mai ritrovato da allora la piena autonomia di Nazione indipendente, la
formulazione di «guerra civile» è fortemente riduttiva: la guerra di Liberazione
è stato lo scontro di due.fazioni minoritarie, in un quadro di destrutturazione
dello Stato e di crollo delle istituzioni, trascinate nel gorgo dalla
fuga della monarchia e dallo sfascio dell’esercito. Il giudizio di De
Felice, in particolare sul ruolo delle forze armate, è senza appello.
Non stupisce che i suoi allievi non si siano scaldati più che tanto per
Cefalonia.
Il pensiero neo revisionista ha per contro coltivato e approfondito una
specie di principio di equanimità fra repubblichini e partigiani, i primi
riscattati dalla «buona fede» con cui si batterono, i secondi, malgrado
l’eroico impegno, penalizzati dall’assenteismo di una maggioranza grigia
e opportunista, quanto insidiati da una preponderante partecipazione comunista,
portatrice di finalità tutt’altro che patriottiche ma di potere politico,
per di più etero guidato.
Questa griglia ottica è falsificante. La «buona fede» non è una categoria
interpretativa della Storia. Anche Hitler era in buona fede. E se è auspicabile
l’umana pietas per i ragazzi di Salò, questa non può confondersi col giudizio
storico e neppure con quello etico. Il generale Gandin, fucilato a Cefalonia
con suoi soldati per esser rimasto fedele al giuramento, non può essere
messo sullo stesso piano del maresciallo Graziani, che quel giuramento
aveva rinnegato e si era messo al servizio dei tedeschi.
L’equiparazione appare, invece, percorribile per quanti assumono la definizione
di «guerra civile» come dato assoluto, quasi quello che si combatteva
fosse un conflitto esclusivamente italiano. Ma non era affatto così. L’Italia
nel ‘43’45 era solo uno scacchiere di uno scontro mondiale tra democrazia
e nazismo. Quella era la posta mortale in gioco. In quella battaglia epocale
e in quel preciso quadro storico gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Urss
stavano da una parte, Hitler, i suoi alleati e seguaci dall’altra.
Quindi, quali che siano i crimini, gli errori e le degenerazioni del comunismo,
precedenti e antecedenti quell’epoca, allora l’Armata rossa combatteva
oggettivamente per la salvezza del mondo libero, da Stalingrado fino all’irruzione
nei recinti spinati di Auschwitz, dove strappò allo sterminio gli ultimi
superstiti . Grazie agli eroi di Cefalonia e alla Resistenza che da lì
iniziò, l’Italia è riuscita a schierarsi dalla parte giusta, dopo che
era stata trascinata in una infausta alleanza e condotta alla sconfitta.
Se ci fossimo piegati a quel destino, allora sì la Patria era morta. E
qui si pone, appunto, un altro snodo del dibattito storiografico, che
anche di recente si è acceso attorno al libro di un ex brigatista nero
: gli alleati erano da considerarsi «occupatori» dell’Italia o liberatori
da accogliere e da appoggiare anche con la lotta armata?
Il quesito non è di poco momento. La prima risposta è quella che accompagnò
la nascita e la vita del Msi, fino alla svolta di Fiuggi. La seconda è
quella che dette la Resistenza.
Il fatto, assolutamente positivo, che Alleanza nazionale abbia
compiuto, sotto l’impulso di Fini, un marcato distacco da quell’assunto
non comporta, però, una vidimazione assolutoria sul piano storico della
repubblica di Salò né delle motivazioni dei suoi adepti. Non c’è parificazione,
né allora né oggi, tra chi stava dalla parte della democrazia e della
libertà, sia che portasse le stellette o la falce e martello sul berretto
e chi stava dalla parte del nazifascismo, con il teschio delle brigate
nere o le insegne delle Ss.
Gli uni hanno salvato la Patria e rilegittimato l’Italia, gli altri l’avrebbero
asservita ai carnefici di Cefalonia.
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