MILITARI ITALIANI INTERNATI
1. L'Armistizio tra l'Italia e le Potenze Alleate, l'8 settembre 1943,
ha fatto nascere, da parte tedesca, le prime forme di ostilità, manifestatesi
nel rastrellamento e cattura dei militari italiani, precedentemente considerati
alleati, in tutte le aree europee ed extraeuropee sottoposte al controllo
dell'occupazione tedesca. Il rastrellamento e la cattura costituiscono
elementi storici oggettivi che non necessitano di alcun'altra considerazione
o dimostrazione.
Diversamente può dirsi del trattamento riservato a questi militari, dalla
cui connotazione dipende in parte la qualifica che ad essi è stata data
nel corso della restante parte della guerra e quella che essi avrebbero
dovuto ottenere sulla base del diritto internazionale.
Va, comunque, precisato che la firma dell'armistizio da parte del Maresciallo
Badoglio non ha determinato immediatamente una situazione di "aperta ostilità"
tra l'Italia rimasta fedele al re e la Germania hitleriana per due ordini
di motivi:
1) il Maresciallo Badoglio inviò, a nome del re, alla Germania la dichiarazione
di guerra a Madrid il 13 ottobre 1943 tramite l'Ambasciatore de' Calboli,
quindi, oltre un mese dopo l'armistizio (1);
2) l'Italia non fu mai dichiarata formalmente "alleata" delle Grandi Potenze,
ma divenne cobelligerante a partire dalla stessa data: qualifica che consentì
ad alcuni reparti dell'esercito regolare di modesta entità di partecipare
alla guerra a fianco degli Alleati.
2. Per quanto concerne la qualifica dei militari italiani rastrellati
e catturati dai Tedeschi nelle aree da questi occupate è certo che essi
dopo il 13.X.1943 avrebbero dovuto essere dichiarati prigionieri di guerra
e trattati come tali dalla Germania. Pertanto, essendo sia l'Italia sia
la Germania parti contraenti della Convenzione di Ginevra dal 27 luglio
1929 sui prigionieri di guerra, essi avrebbero avuto diritto al trattamento
previsto da tale Convenzione (2), in particolare per quanto concerne il
loro utilizzo per il lavoro. Ciò non è accaduto per una serie di motivi
e con le modalità che qui si esporranno: con il risultato che queste persone
hanno dovuto svolgere coattivamente il lavoro nei Lager, senza poter godere
di alcuna garanzia internazionale, compresa l'assistenza della Croce Rossa
internazionale, e di altri enti, vivendo spesso in condizioni subumane
come risulta da varie testimonianze ed essendo la loro vita minacciata
dai tedeschi ove non si fossero attenute alle disposizioni da questi impartite.
Va precisato che, già dopo l'arresto di Mussolini, avvenuto il 25.7.1943
su ordine del re, la Germania valutò l'atteggiamento da assumere nei confronti
dei militari italiani, come risulta dall'ordine del Comando Supremo della
Wehrmacht del 28.VII.1943 (3), cui seguì un altro ordine dell'8.IX.1943
dello stesso Comando nel quale si parlava di internamento (4). Tuttavia
una direttiva dello stesso Comando, datata 9 settembre, precisava che
i militari italiani sarebbero stati considerati prigionieri di guerra:
espressione ripetuta nella "direttiva di massima per il trattamento degli
appartenenti alle Forze Armate e alla Milizia", del 15.IX.1943 del Comando
Supremo della Wehrmacht con riferimento agli italiani disarmati e non
disposti ad aderire alla RSI - Repubblica Sociale Italiana ed a continuare
la guerra accanto ai tedeschi, nella quale si precisava che per ordine
di Hitler "i prigionieri di guerra italiani dovevano essere indicati come
"Internati Militari Italiani" (5): cambiamento che risulta anche da un
carteggio successivo (20 novembre 1943) tra il comandante Bachmann ed
il rappresentante della Croce Rossa Internazionale(6) e che era stato
notificato a Mussolini per ordine di Hitler il 1.10.1943 (7). La necessità,
puramente politica, di informare Mussolini, liberato il 12 settembre dalla
prigionia da parte di paracadutisti delle S.S., si fondava sulla circostanza
che egli il 18.IX aveva creato a Salò la Repubblica Sociale Italiana,
fedele alleata della Germania.
Occorre premettere, prima di determinare le conseguenze connesse con questa
nuova denominazione, che il termine di "internato militare" ricorre nel
diritto internazionale solo con riferimento ai militari di uno Stato belligerante
che si trovino sul territorio, inteso in senso lato, di uno Stato neutrale
(8).
Quindi la stessa denominazione non si addiceva, sotto il profilo giuridico,
ai militari italiani rastrellati e catturati dai tedeschi. E' probabile
che il ricorso ad una denominazione così impropria, cui corrispondeva
uno "status" particolare(i cui estremi sono qui di seguito indicati),
sia derivata da una serie di ragioni desumibili da carteggi: 1) placare
le preoccupazioni di Mussolini facendogli intendere che i militari italiani
non venivano considerati "nemici" e ciò avrebbe accresciuto il suo personale
prestigio internazionale; 2) consentire al Duce di offrire alla Germania
queste persone come lavoratori da adibire, senza alcuna tutela, nelle
varie industrie e nell'agricoltura, depauperate della forza lavoro tedesca
utilizzata in guerra.
La valutazione qui data al cambiamento di denominazione non si fonda però
su dati obiettivi ed è destinata a restare su un piano teorico se è vero
che l'Ambasciatore Rahn fu incaricato di avvisare "con la dovuta forma"
il Duce circa l'ordine impartito dal Führer in merito al cambiamento di
denominazione che collocava definitivamente i Militari italiani al di
fuori della sfera di applicazione della citata Convenzione di Ginevra
e degli accordi internazionali in materia (9).
D'altra parte dal carteggio dell'Archivio Politico del MAE di Berlino
(20 novembre 1943) risulta che gli italiani "non erano considerati prigionieri
di guerra" (10).
Con riferimento alla posizione di questi militari, occorre certamente
ricorrere ai principi del diritto internazionale, in base ai quali, per
determinare se un fatto o un evento debba ricondursi o meno ad una data
categoria giuridica, devono considerarsi tutti gli elementi concreti che
lo formano o che gli sono attinenti per decidere se il fatto rientri o
meno nella categoria giuridica in ipotesi considerata o in un'altra.
Ora la vasta documentazione, che include moltissime testimonianze dirette
(11) dimostra che certamente, anche a prescindere dalla semplice denominazione
formale, i militari italiani non furono trattati dalla Germania né come
appartenenti a Forze militari alleate, né come prigionieri di guerra,
ma in prevalenza furono adibiti coattivamente a lavori pesanti e pericolosi.
In effetti il loro lavoro si svolgeva secondo le modalità della schiavitù
e della coartazione che prevedono "il dominio dell'uomo sull'uomo": quindi
l'impossibilità di scelta e la completa sottomissione ad altri.
D'altra parte il Comando Supremo della Wehrmacht ha emanato il 21 Aprile
1944 un'ordinanza, il cui testo è custodito dalla Commissione per i crimini
di guerra in Polonia, secondo cui la condizione degli IMI è nettamente
diversa da quella dei prigionieri di guerra di qualsiasi nazionalità (inclusi
i militari italiani catturati in corso di operazioni con le truppe alleate
dopo l'8 settembre 1943), spettando ai primi "alloggi e posti di lavoro
meno favorevoli" (12).
Tutti questi documenti costituiscono una riprova della condizione nella
quale fin dal 20 settembre 1943 si trovavano gli IMI. Pertanto deve considerarsi
irrilevante l'accordo del 20 luglio 1944 tra Mussolini ed Hitler, diretto
a sottoporre gli IMI sotto il diretto controllo del Servizio civile di
lavoro sottraendoli all'Amministrazione della Wehrmacht (13).
Tale passaggio prevedeva un'apposita dichiarazione (14) da parte di ogni
internato, estorta in molti casi con la forza o addirittura sottoscritta
direttamente da componenti della Gestapo (15) alla quale alla fine si
rinunciò (vedi documenti allegati alla nota 17). In effetti, a prescindere
da queste formalità amministrative, gli IMI vivevano in una situazione
di schiavitù, comprovata anche dal contenuto di una "carta di permesso"
che prevedeva l'immediata fucilazione del Militare italiano internato
ove si fosse trovato in una delle zone della morte senza tale carta (16).
Come seguito del citato incontro tra Mussolini ed Hitler, il 12 agosto
si ebbe la ordinanza del Führer che comportava la formale trasformazione
degli IMI in lavoratori civili e tale trasformazione viene ribadita in
ulteriori documenti (17).
3. Circa l'accordo da ultimo citato, deve osservarsi che esso nella realtà
non modificava sostanzialmente lo status degli IMI se non sotto l'aspetto
organizzativo, restando la loro situazione la stessa, nonostante alcune
concessioni propagandistiche, quindi più apparenti che reali, dettate
dalla blanda volontà politica di non fare sfigurare il Duce.
Sotto il profilo del diritto internazionale, inoltre, tale accordo era
concluso da un organo privo di competenza internazionale, essendo il Duce
capo della Repubblica Sociale Italiana e non organo di tutta l'Italia
(18); laddove i militari internati provenivano da tutte le regioni italiane
e quindi non solo da quelle sottoposte al controllo della RSI ed erano
stati catturati anche prima della creazione di tale repubblica (vedi lettera
del Col. Comandante del Campo Francesco Imbriani al Comando tedesco del
27.VII.1944) (19).
Ciò consente di affermare in conclusione:
1) che a partire dal 20 settembre 1943 e senza soluzione di continuità
gli IMI hanno svolto un lavoro coatto e non quello cui i prigionieri di
guerra potevano essere adibiti sulla base della citata Convenzione di
Ginevra;
2) che, il trattamento riservato dalla Germania agli IMI era contrario
agli "usi di guerra" allora vigenti, il cui fondamento giuridico era da
ricercarsi non solo nella consuetudine internazionale, ma anche nel diritto
naturale;
3) che, anche in assenza di norme convenzionali in materia di internati,
secondo l'opinione di un illustre giurista dell'epoca, Dionisio Anzilotti,
giudice alla Corte Permanente di Giustizia Internazionale, Caposcuola
della Scuola Romana di diritto internazionale, le norme in materia di
trattamento di prigionieri di guerra e affini e di feriti costituivano
un insieme di norme inderogabili, destinate a rappresentare il primo nucleo
delle norme di jus cogens, contemplate dalla Convenzione di Vienna del
1969 sul diritto dei trattati agli articoli 53 e 64.
4. Le considerazioni precedenti indicano con chiarezza come i militari
italiani, con il pretesto apparente di essere destinatari di un miglior
trattamento da parte del governo tedesco rispetto a quello garantito ai
militari catturati, appartenenti alle Forze armate di altri Stati, siano
stati invece sottoposti nella maggior parte dei casi ad innumerevoli soprusi
ed offese della loro dignità di persone e di militari, in violazione delle
convenzioni di L'Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre e di Ginevra
del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra (articoli 27-34), firmata
dalla Germania il 27 luglio 1929 e da questa ratificata il 21 febbraio
1934 e sottoscritta dall'Italia il 27 luglio 1929 e ratificata il 24 marzo
1931.
In particolare secondo la Convenzione citata da ultima i prigionieri di
guerra validi possono essere impiegati come lavoratori a seconda del loro
grado e delle loro attitudini, fatta eccezione per gli ufficiali ed assimilati
sempre che tali prestazioni d'opera non abbiano alcun rapporto diretto
con le operazioni militari.
A ciò aggiungasi che essi possono essere internati in campi cintati, cioè
di concentramento, ma non possono essere rinchiusi se non per ragioni
di sicurezza e di igiene e solo temporaneamente finché permangano le circostanze
che hanno determinato tali misure (art. 9). Inoltre i prigionieri di guerra
sono autorizzati a designare fiduciari incaricati di rappresentarli presso
la potenza cattrice e le potenze protettrici; nei campi di ufficiali ed
assimilati è l'ufficiale prigioniero di guerra più anziano nel grado più
elevato che è riconosciuto come intermediario tra le Autorità del campo
e gli ufficiali e assimilati prigionieri.
Le osservazioni che precedono giustificano il convincimento per il quale
gli IMI sono stati fatti oggetto di innumerevoli e multiformi ingiustizie
in conseguenza delle quali, al termine della seconda guerra mondiale sarebbero
dovute loro spettare forme di riparazione, concordate - così come prevede
il diritto internazionale - tra la Germania e l'Italia sulla base di un
accordo. La divisione della Germania ha impedito che ciò avvenisse in
tempi brevi e la ricostituzione di essa a Stato unitario consente che
oggi possa guardarsi al passato con maggiore equilibrio e serenità avendo
superato i parossismi della guerra e della disfatta, ma anche con maggiore
comprensione verso quanti, convinti di adempiere un dovere, si sono visti
privare di quei benefici, a quell'epoca anche minimi, che il cammino della
civiltà garantisce a coloro che combattono in guerra.
La "memoria" cioè il ricordo del passato congiunta al superamento di un
periodo storico-politico doloroso e alla scelta definitivamente democratica
e fondata sulla legalità della quale la Germania oggi rappresenta un emblema
in Europa, inducono la Germania stessa ad un processo di revisione e di
assunzione di responsabilità che non può non concorrere a rinsaldare la
sua posizione nell'ambito dell'Unione europea ed a migliorare i rapporti
di "buon vicinato", come anche il Presidente Rau ha più volte ricordato
in discorsi Ufficiali ed in dichiarazioni più o meno formali (20).
In questo percorso il riferimento ai principii ed alle norme di diritto
internazionale in materia di responsabilità può essere particolarmente
opportuno: specialmente a quelle norme le quali comportano che l'obbligo
principale per uno Stato di non compiere un fatto illecito si trasformi
in un'obbligazione secondaria diretta a rendere positivo nella maggiore
estensione possibile il risultato dell'azione compiuta dallo Stato autore
dell'illecito.
Purtroppo fino ad oggi il Governo tedesco non ha preso alcun provvedimento
favorevole espressamente per la categoria degli IMI. Tra l'altro non vale
rilevare che l'art. 77 del Trattato di pace con l'Italia del 10.2.1947
contiene una rinuncia da parte dell'Italia, anche a nome dei suoi cittadini,
a far valere contro la Germania diritti che non siano stati regolati alla
data dell'8 maggio 1945, salve alcune espresse eccezioni. In proposito
occorre rilevare che: 1) l'art. 77 concerne essenzialmente il diritto
di proprietà (e relativo risarcimento) su beni immobili situati in Germania,
nonché i danni subiti da tali beni durante la guerra; 2) la situazione
delle relazioni italo-germaniche sono profondamente cambiate dal 1947
ad oggi e che la stessa Germania ha subito molti mutamenti; 3) che la
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (art. 62) non
include i trattati di pace nella categoria di trattati ai quali non si
applica la clausola "rebus sic stantibus"; con il risultato che il mutamento
delle circostanze può incidere sensibilmente sull'applicazione ed esecuzione
di tali trattati.
D'altra parte l'accordo di Bonn del 2.6.1961, concluso dall'Italia con
la Repubblica Federale di Germania, ha previsto indennizzi a favore dei
cittadini italiani "colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste"
per ragioni di "razza, fede o ideologia" e che a causa di tali misure
abbiano sofferto "privazioni di libertà o danni alla salute, nonché a
favore dei superstiti di coloro che sono deceduti a causa di queste persecuzioni".
Con riferimento a quest'accordo occorre rilevare che: 1) gli IMI non rientrano
nelle categorie di persone menzionate dall'accordo stesso, perché essi
sono stati catturati in quanto appartenenti alle Forze armate italiane
e, quindi, per motivi politico-militari, non espressamente menzionati
nell'accordo stesso; 2) la liberatoria a favore della Repubblica Federale
di Germania (con incluso il Land di Berlino), prevista dall'art. 3 dell'accordo
e ribadita nello scambio di note tra l'ambasciatore Quaroni ed il ministro
degli Affari esteri della RFT Karl Carstens non riguarda gli IMI proprio
per le ragioni esposte al punto 1. In effetti la liberatoria concerne
le pretese relative alle questioni formanti oggetto dell'Accordo che da
questo vengono regolate in via definitiva, non quindi le pretese al risarcimento
fondate su motivi diversi da quelli contemplati nell'Accordo stesso.
5. Nell'ottica fin qui considerata non può non ritenersi particolarmente
meritoria e conforme alle norme di diritto internazionale in materia di
responsabilità l'iniziativa assunta dalla Germania, anche a seguito della
Risoluzione del Parlamento Europeo del 16 gennaio 1986, Doc. B2-1475/85,
(21), di emanare una legge per la Costituzione di una Fondazione intitolata
"Memoria, responsabilità e futuro", fondazione avente lo scopo di rendere
in qualche modo giustizia a quanti dallo Stato nazista o dalle imprese
private, durante la seconda guerra mondiale sono stati sottoposti a lavoro
coatto e ridotti in condizioni di schiavitù attraverso deportazione, prigionia,
sfruttamento fino all'annientamento da lavoro e sono state vittime di
altre innumerevoli violazioni dei diritti umani.
La legge del 12 agosto 2000 riguardante, come si è accennato "memoria
responsabilità e futuro" menziona al par. 2, n. 1 che la Fondazione si
prefigge, attraverso la collaborazione di organizzazioni di partenariato,
di mettere a disposizione fondi di finanziamento per la concessione di
prestazioni agli ex-lavoratori forzati ed a quanti sono stati colpiti
da altre ingiustizie nel periodo del nazionalsocialismo.
Ora la definizione contenuta nella legge riguardante i lavoratori destinatari
del risarcimento da essa previsto ed aventi titolo ad ottenere quanto
la stessa legge prevede non può non includere la categoria degli IMI,
i quali - come più volte si è accennato - sono stati in molti casi sottoposti
a forme di vessazione lesive della dignità umana, oltre che di quella
derivante dall'appartenenza alle Forze Armate.
Una volta negato loro lo "status" di prigionieri di guerra, come è avvenuto
su richiesta del Führer, per essi è caduta l'esclusione prevista dal par.
11, n. 3, concernente la prigionia di guerra condizione alla quale la
legge in parola non attribuisce titolo al risarcimento. Ne consegue al
contrario che per gli IMI permane tale titolarità ove essi rispondano
alle condizioni previste al par. 1, sottoparagrafi 1, 2 e 3 dello stesso
art. 11 e non siano deceduti prima del febbraio 99, vale a dire: 1) siano
stati arrestati e costretti al lavoro in un campo di concentramento nel
senso previsto dal par. 42, comma 2 della legge federale sul risarcimento
o in un'altra prigione al di fuori del territorio dell'attuale Repubblica
austriaca, oppure in un ghetto in condizioni equipollenti (comparabili);
2) siano stati deportati dal paese di origine nel territorio del Reich
secondo i confini di questo Stato quali risultavano nel 1937 oppure in
uno dei territori occupati dal Reich e costretti al lavoro sia in un'impresa
industriale sia nel settore pubblico e tenuti prigionieri o in condizioni
di vita particolarmente cattive paragonabili a quelle di una prigione.
E' chiaro, con riferimento alla norma in oggetto che il termine "Heimatstaat"
va interpretato in senso ampio in quanto gli IMI, militari smilitarizzati,
solo in parte si trovavano in Italia, dove comunque furono catturati,
essendo una parte di essi impiegata dallo Stato italiano, allora ancora
unitario, all'estero proprio per la difesa della Patria.
D'altra parte in favore dell'interpretazione estensiva della norma gioca
la penultima parte del par. 11, là dove si precisa che "le organizzazioni
partners possono... concedere delle prestazioni anche alle vittime dei
provvedimenti di ingiustizia nazionalsocialista che non appartengano ai
gruppi di casi citati nel capoverso 1, nn. 1 e 2, in particolare ai lavoratori
coatti nel settore agricolo".
Alle conclusioni qui accennate si perviene anche sulla base dell'interpretazione
del par. 12, dedicato alle "Definizioni" per il quale sono considerati
elementi distintivi della prigionia le condizioni di detenzione inumane,
l'alimentazione insufficiente e la mancanza di assistenza medica: carenze
delle quali - come si è visto anche attraverso le testimonianze, i documenti
della Croce Rossa Internazionale e il decesso di decine di migliaia di
internati militari - gli IMI spesso si sono lamentati e sono stati vittime.
Lo stesso par. 12 provvede a definire le imprese tedesche come quelle
che avevano od hanno la sede nel territorio del Reich secondo i confini
del 1937 oppure nella Repubblica Federale tedesca o vi avevano la casa
madre. Sono considerate tali anche le imprese con sedi principali all'estero
e quelle che, pur essendo collocate fuori dei confini del Reich, rapportati
al 1937, nel periodo tra il 30.1.1933 e l'entrata in vigore della legge
considerata, contemplavano direttamente o indirettamente, una partecipazione
di almeno il 25%.
Si può dunque concludere che, ai sensi della legge in esame, gli IMI,
i quali hanno adempiuto alle formalità previste dalla legge, hanno titolo
giuridico all'ottenimento del risarcimento da questa previsto.
Maria Rita Saulle
Prof. Ord. di diritto internazionale
Università di Roma La Sapienza
Note
1) Per quanto riguarda la dichiarazione di guerra citata nel testo che,
secondo alcuni storici, non sarebbe stata accettata dal governo tedesco
deve precisarsi che:
a) il diritto internazionale procede sempre sulla base della valutazione
delle situazioni oggettive ed effettive, per la quale lo stato di guerra
si determina per mezzo di fatti ostili concludenti es. occupazione di
territori, invasioni, ecc. più che attraverso formali dichiarazioni. Ciò
appare evidente anche dal tenore della convenzione de L'Aja del 18 ottobre
1907 relativa all'apertura delle ostilità, la quale - senza escludere
la possibilità di aprire le ostilità in modo diverso - obbliga le parti
contraenti, e solo quelle, a dare inizio alle ostilità solo dopo un ultimatum
con dichiarazione di guerra condizionata o dopo una dichiarazione di guerra
motivata. La Germania ha firmato tale convenzione il 18 ottobre 1907 e
l'ha ratificata il 27 novembre 1909; l'Italia ha firmato tale convenzione
nel 1907, ma non l'ha ratificata.
b) Una certa confusione permane in merito alla eventualità che la dichiarazione
di guerra inviata da Badoglio sia stata o meno accettata dal governo tedesco.
La possibilità che tale dichiarazione sia stata rifiutata avvalora la
tesi sostenuta da chi scrive e da altri per la quale il governo tedesco
conosceva il contenuto della dichiarazione stessa e che quindi esso era
al corrente dell'intenzione delle forze militari italiane di non collaborare
ulteriormente con quelle tedesche, considerate ormai nemiche.
C)Non si può dimenticare, infine, che nel corso della seconda guerra mondiale,
come del resto sia precedentemente sia successivamente, lo stato di guerra
è stato creato anche senza una formale dichiarazione, bensì sulla base
dell'inizio delle ostilità non precedute da alcun ultimatum e/o dichiarazione
motivata [Vedi il programma di Hitler in 16 punti del 30 agosto 1939 che
comprendeva l'annessione di Danzica, l'Auschluss della Polonia (1° sett.),
l'attacco dei Giapponesi a Pearl Harbour ecc.].
2) Cfr. il testo della Convenzione in Schindler/Joman Droit des Conflits
armés, Genève 1996, Comité international de la Croix-Rouge et Institut
Henry-Dunant, p. 415 ss. La Convenzione citata nel testo regola le condizioni
dei prigionieri di guerra dal momento della loro cattura a quello della
liberazione includendo una serie di obblighi da parte della potenza detentrice
e correlativi diritti a vantaggio dei prigionieri. In particolare l'art.
27 concerne il lavoro dei prigionieri prevedendo in favore di questi varie
garanzie.
Del resto la materia in oggetto risultava già disciplinata da norme internazionali
consuetudinarie, formanti il "diritto di guerra", costituito ad un tempo
da "usi" in senso stretto e da convenzioni e consistente in una delle
parti fondative, insieme con il diritto dei trattati, del diritto internazionale
pubblico.
A questo proposito non può non osservarsi che proprio la II convenzione
de L'Aja del 1899 sulle "leggi e gli usi della guerra terrestre" e la
IV convenzione de L'Aja del 18 ottobre 1907, avente pari titolo, contemplano
nei rispettivi Regolamenti allegati entrambe all'art. 4 ss. la condizione
dei prigionieri di guerra e all'art. 6 espressamente il loro lavoro. Da
ciò discende la constatazione che, essendo la normativa citata, diretta
a codificare il diritto internazionale precedente, quest'ultimo aveva
carattere generale, obbligando, quindi, la generalità degli Stati esistenti
a quel tempo, indipendentemente dalla loro eventuale partecipazione ad
accordi internazionali.
3) Cfr. Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht, Band III: 1. Januar
1943 - 31. Dezember 1943, pag. 850.
4) Cfr. Archivio dell'Istituto di Storia Contemporanea di Monaco, MA 240,
55518735-737; OKW/WFSt/Qu Nr.662242/43 g.kdos. Chefs., F.H.Qu.,den 8.9.1943.
vedi: Gerhard Schreiber, Lo statuto dei militari italiani deportati nei
lager di prigionia della Germania nazista,. In: Rassegna dell'Anrp, nn.9/10-2000,
pp.12-13.
5) Vedi allegato 5.
6) Vedi allegato 6.
7) Cfr. Archivio Politico Ministero esteri di Berlino, Büro Staatsekretar,
Akten betr. Italien, vol. 17: 1.10.1943 Sonderzug n. 1564 Bram 420/R/43.
(Fonte Schreiber citato.)
8) Il termine di "internati" ricorre, nel significato precisato nel testo,
nel citato Regolamento annesso alla convenzione de L'Aja concernente le
leggi e gli usi in materia di guerra terrestre del 1899 all'art. 57 ss.
9) Vedi sopra nota 7.
10) Vedi sopra nota 6.
11) Cfr. per tutti C. Lops, Albori della Nuova Europa, Litostampa Nomentana,
Roma, 1965, pp.494-504.
12) Vedi allegato 12.
13) Vedi allegato 13.
14) Vedi allegato 14.
15) Vedi allegato 15.
16)da: Carmelo Conte, Prigionieri senza tutela, Giuffrè ed., Milano, 1970,
pp. 52-53.
17) Vedi allegato 17.
18) Alle considerazioni sulla posizione del Duce, quale capo della Repubblica
di Salò, accennate nel testo, deve aggiungersi l'osservazione per la quale
non vi fu successione di Stati tra il Regno d'Italia e tale Repubblica,
non solo per la diversa entità territoriale tra quella della Repubblica
ed il precedente Regno, il quale - pur con le particolarità derivanti
dall'essere su un territorio più ridotto e sottoposto ad occupazione degli
anglo-americani - ha continuato la sua esistenza nel Regno del Sud Italia.
Pertanto gli obblighi ed i diritti, anche quelli concernenti la tutela
dei cittadini italiani, facenti capo al Regno d'Italia non avrebbero potuto
trasmettersi a Mussolini quale capo del governo o dello Stato della Repubblica
Sociale Italiana.
19) Vedi allegato 19.
20) Vedi allegato 20.
21) vedi allegato 21. (Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, 17.2.86,
N.C. 36/129). |