Lavoro coatto, memoria di carta

Le prove del ruolo del fascismo nelle deportazioni e nel reclutamento di operai per la Germania. In prefettura a Milano
FIAMMETTA AUCIELLO

Nelle fatiscenti cantine, in via di ristrutturazione, del palazzo della Prefettura di Milano sono stati trovati pacchi di schede di italiani ingaggiati per andare a lavorare nella Germania nazista. Erano passate inosservate, nelle precedenti ispezioni, fra i tanti mucchi di carte che costituivano l'archivio di uno dei più importanti uffici pubblici della città: giacevano disordinate, polverose e imbrattate, poco onorevole testimonianza della dolorosa vicenda che aveva coinvolto circa 100 mila persone, in tutta Italia, dimenticate quanto quelle carte.
Al momento del ritrovamento, la legge tedesca sugli indennizzi ai lavoratori forzati era ancora di là da venire e non si pensava che i documenti, pur valutati in tutto la loro importanza storica, avrebbero potuto assumere una più contingente utilità.
La registrazione dei lavoratori civili, a opera della Confederazione fascista per l'industria, era stata effettuata con la redazione di due distinti moduli: una scheda anagrafica degli operai e una ricevuta d'ingaggio bilingue, entrambe con la data di partenza e di rimpatrio e, non di rado, la ditta presso la quale prestavano la loro opera. Le prime schede risalgono al 1940 e riguardano uomini e donne della provincia di Milano che volontariamente avevano accettato un contratto di lavoro temporaneo in Germania, spinti dalla disoccupazione e invogliati da un trattamento economico non molto inferiore a quello garantito ai tedeschi. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, come è risaputo, tutto cambia. I volontari sono costretti a rimanere a ben altre condizioni: non pagati, con poco cibo, vestiti in modo inadeguato al clima, rinchiusi in campi (i più sfortunati sono inviati a Dachau, Flossemburg, Buchenwald). Ironia vuole che qualcuno ancora scelga liberamente di emigrare, forse convinto dalla campagna pubblicitaria condotta sui quotidiani dalle grandi aziende tedesche e dagli accattivanti volantini della Repubblica Sociale. L'Ufficio del lavoro germanico, nel Palazzo di Giustizia, smista i lavoratori, coordina le segnalazioni dei giovani renitenti alla leva o dei rastrellati dalla polizia fascista e decide dove inviarli.
Nel dicembre del 1944 un accordo italo-tedesco relativo all'impiego di lavoratori italiani in Germania, affida alle "Autorità Militari" la scelta dei cittadini da utilizzare, e dispone che "gli elementi destinati al trasferimento in Germania dovranno essere riuniti in appositi centri di raccolta in Italia ove verranno controllati e selezionati, ai fini del loro impiego, dai competenti organi italiani di concerto con i corrispondenti organi germanici".
Sulle schede, che in questa fase si riferiscono a persone provenienti anche da altre province e a qualche straniero, compaiono annotazioni che illuminano sul motivo della deportazione. In alcuni casi vengono allegate note della legione Muti, dell'ufficio matricola del carcere di San Vittore, richieste di informazioni dei familiari, alcuni libretti di lavoro. La documentazione, attualmente, si trova all'Archivio di Stato di Milano ed è raggruppata in circa 40 faldoni; suddivisa secondo la tipologia - schede anagrafiche di volontari emigrati tra il '40 e il '43, schede di lavoratori coatti deportati dal '43 al '45, ricevute d'ingaggio - è ordinata alfabeticamente e quindi facilmente rintracciabile. I dati provenienti da quattro faldoni sono già stati immessi in un data base e riguardano circa 2000 lavoratori, fatte quindi le dovute proporzioni, a lavoro ultimato si dovrebbe disporre, forse, di 15 mila nominativi. Alcune schede saranno andate sicuramente perdute nel corso dei trasferimenti: alla fine della guerra l'archivio fu rilevato dal nuovo Ministero dell'assistenza postbellica e utilizzato per organizzare i rientri dei profughi, i magri sussidi loro concessi e le informazioni alle famiglie. E' comunque una ragguardevole cifra, rapportata all'area milanese.
Probabilmente questo materiale non verrà ritenuto sufficiente a dimostrare l'effettiva prestazione di lavoro a vantaggio del Terzo Reich, ma in Archivio di Stato (dove Fiammetta Auciello lavora come archivista, ndr) ci si è posti il problema di immedesimarsi nei sopravvissuti e nei loro familiari: persone avanti con gli anni, non tutte in possesso di strumenti culturali e finanziari tali da potersi muovere agevolmente tra i vari uffici e organizzazioni italiani e germanici in cerca di prove delle quali, forse, si erano disfatte, nel corso della loro lunga vita, mai più pensando che un giorno sarebbero tornate utili. Questa ragione, unita a un più generale senso di gratificazione ricavato dal poter fare qualcosa di tangibilmente utile (risvolto non sempre così immediato nella professione di archivista), ci ha convinti a diffondere, per mezzo della stampa, la notizia dell'esistenza di tali carte e ad aprire, presso la sede dell'Archivio, uno "sportello" ad hoc, separato rispetto ai normali servizi prestati dall'Istituto, per semplificare e accelerare la ricerca dei documenti e il rilascio di copie autenticate.
A un mese dalla comparsa dell'articolo sul giornale la Repubblica e dalla pubblicazione sul sito della pagina milanese del primo, e per il momento unico, elenco di duemila nomi, sono arrivate molte telefonate e richieste, ma meno forse di quelle che ci si sarebbe aspettati. I più numerosi sono stati gli ex Imi, gli internati militari italiani, per i quali purtroppo la probabilità di trovare traccia fra le schede è piuttosto remota e strettamente collegata alla loro personale vicenda. La nostra pur recente esperienza con utenti non consueti in un archivio, frequentato di solito da storici di professione, ricercatori, laureandi, ha fra l'altro dimostrato quanto sia tuttora forte il desiderio, da parte dei protagonisti di quelle vicende (o delle mogli, dei familiari) di raccontare la propria storia dopo quasi sessant'anni di silenzio. Scoprire interlocutori interessati, anche per motivi professionali, ai loro ricordi li lascia piacevolmente stupiti, soprattutto quando si rendono conto che, a volte, neanche ai figli o ai nipoti hanno avuto il tempo e la possibilità di raccontare. Una giovane donna ci ha scritto che con sorpresa aveva trovato il nome di suo nonno nell'elenco pubblicato dal sito di Repubblica: non sapeva nulla di quella parte della sua vita. Un ex militare che aveva preso parte alla campagna di Russia e a piedi era riuscito a ritornare a Milano, dopo mesi di disoccupazione - era ben difficile trovare un lavoro per un militare sbandato - nel maggio del 1944 si era rivolto all'organizzazione Todt, nell'illusione di essere impiegato in Italia, come accadeva a molti. Invece venne inviato a Berlino dove gratuitamente lavorò fino al crollo della Germania nazista. Allora, ancora a piedi, ritornò in Italia. Per lui, ormai ottantenne e con tanta strada nelle gambe, la speranza di ricevere, più che un magro indennizzo, un riconoscimento che gli fu negato alla fine della guerra, rappresenta una nuova fonte di vitalità: ci ha ringraziato.
Fra i civili, meno nota la presenza femminile: una ex lavoratrice forzata è venuta in Archivio accompagnata dalla figlia, nata in un campo in Germania; giovane donna, era stata fermata senza alcun motivo dalla polizia fascista sul tram, al ritorno dal lavoro. Nel campo aveva conosciuto un volontario italiano e si erano sposati.
Sembrano racconti straordinari, ma forse ogni storia delle 15 mila persone, i cui nomi sono scritti nelle asettiche schede anagrafiche, lo è: basterebbe ascoltarle.

Le Schede anagrafiche dei lavoratori partiti per la Germania e le Ricevute d'ingaggio sono all'Archivio di Stato di Milano, Via Senato n. 10. Si può telefonare allo 02-7742161, 774216220, mandare un fax allo 02-774216230, una e-mail all'indirizzo asmi@cilea.it o si può venire di persona. Lo sportello seguirà fino alla fine di luglio i seguenti orari: lunedì e mercoledì 15-17,30, giovedì 9,30-12 e 15-17,30, sabato 9,30-12. In agosto: martedì e giovedì 9,30-12 e 15-17,30. Per il periodo successivo, si darà tempestiva comunicazione. L'elenco di 2000 nomi e altre informazioni si possono leggere sul sito www.repubblica.milano.it. L'elenco e gli orari aggiornati si possono trovare anche nel sito www.archivi.beniculturali.it, nella pagina relativa all'Archivio di Milano.
 

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I lavoratori forzati del Terzo Reich

"Zwangsarbeiter", i sopravvissuti al lavoro coatto in Germania: prorogati i termini per chiedere l'indennizzo
GUIDO AMBROSINO - BERLINO

Una buona notizia per gli Zwangsarbeiter, i sopravvissuti al lavoro coatto nella Germania nazista: i termini entro i quali possono chiedere gli indennizzi previsti dalla legge tedesca sono stati prorogati: non scadranno più l'11 agosto di quest'anno, ma il 31 dicembre. Il Bundestag ha approvato all'unanimità questa modifica il 28 giugno, la camera dei Länder - il Bundesrat - l'ha accettata il 13 luglio. A breve seguiranno la ratifica del presidente della repubblica e la promulgazione sulla gazzetta ufficiale.
I deportati costretti a lavorare in Germania, e il coniuge o i figli di quanti sono morti dopo il 16 febbraio 1999 (data dell'intesa internazionale sugli indennizzi), prendano subito carta e penna e chiedano alla Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), scelta come "partner" della fondazione tedesca per gli italiani non ebrei, l'invio del formulario. Potranno poi rispedirlo compilato alla Oim entro la fine di dicembre. Questo l'indirizzo: via Nomentana 62, 00161 Roma, tel. 800.598859 oppure 06.44250020.
I sopravvissuti ebrei potranno invece chiedere i moduli alla Unione delle comunità ebraiche italiane, Lungotevere R. Sanzio 9, 00153 Roma, tel. 06.5803667, e poi inoltrare le domande alla Claims Conference, Sophienstr.44, D-60487 Frankfurt am Main (Rft).
Restano esclusi dagli indennizzi quanti sono partiti volontariamente per la Germania, a meno che nel corso della loro odissea non siano poi finiti in campi di rieducazione al lavoro o in altri gironi dell'universo concentrazionario.
Dovrebbero avere invece diritto a un rimborso gli internati militari. Rimane da stabilire se il periodo di internamento rientri nei criteri previsti dalla legge. All'articolo 11 vi si dice che "la prigionia di guerra non dà diritto a prestazioni". Ma lo status di "prigionieri di guerra" fu negato dal Reich agli italiani, insieme alle tutele e alle garanzie che avrebbe comportato).
Comunque, a partire dall'estate del '44, gli ex-soldati che non avevano optato per le formazioni armate della repubblica di Salò vennero tutti costretti a lavorare come "civili", tranne alcuni ufficiali di carriera.
Restarono uno dei gruppi peggio trattati. Dovrebbero quindi rientrare in quella categoria di lavoratori formalmente liberi - perché non rinchiusi dietro reticolati - ma costretti a vivere in condizioni "particolarmante aspre", cui secondo la legge spetta un compenso fino a 5.000 marchi. Lo storico Ulrich Herbert, autore di studi fondamentali sul lavoro coatto, non ha dubbi in proposito: "La situazione dei lavoratori dell'est, e dall'estate 1943 anche degli italiani (sottolineatura nostra), era caratterizzata da cattive condizioni per il vitto, la retribuzione, l'alloggio e il vestiario, da orari di lavoro protratti oltremisura, da una carente assistenza medica" (Ulrich Herbert, Fremdarbeiter, Bonn 1999, p. 410).
Sulla questione se gli "internati militari italiani" vadano equiparati ai prigionieri di guerra, e quindi esclusi - almeno per il periodo di internamento - dagli indennizzi, il governo tedesco ha chiesto un parere al professor Christian Tomuschat, ordinario di diritto internazionale alla Humboldt-Universität di Berlino.
Il giurista ha ricevuto il 27 giugno una delegazione di esperti italiani, composta dall'esperta di diritto internazionale Maria Rita Saulle, dallo storico Luigi Cajani, da Max Giacomini, presidente dell'Anei (associazione degli ex internati, da Enzo Orlanducci, responsabile del coordinamento tra le associazioni italiane interessate, e da Valter Merazzi, rappresentante del coordinamento italiano presso la consulta dell'Oim a Ginevra. Christian Tomuschat presenterà le sue conclusioni alla fine di luglio. Una decisione sugli internati militari non sarà presa dalla fondazione tedesca prima della fine di agosto.
Finora 87.000 persone si sono rivolte all'Oim di Roma per chiedere i formulari che consentono di avviare le procedure di rimborso: si tratta per i quattro quinti di ex internati militari. Sempre all'Oim sono già tornate 50.000 domande compilate.
E' un ordine di grandezza che travolge completamente gli striminziti preventivi della fondazione tedesca. Otto Lambsdorff, incaricato dalla cancelleria di condurre i negoziati che hanno portato alla legge di indennizzo, contava di "cavarsela" in Italia con due-tremila domande dei sopravvissuti ai lager delle Ss e di pochi altri. Le tabelle preparate per lui dallo storico Lutz Niethammer non prendevano in considerazione né la discriminazione negativa per tutti gli italiani dopo l'8 settembre 1943, né gli internati militari.
(La categoria di "internati" nemmeno compare nei formulari dell'Oim. Consigliamo di correggere la formulazione della domanda: "Siete stati prigionieri di guerra?" inserendovi il termine "internati militari").
Fatto sta che i soldi ora stanziati non basterebbero in Italia nemmeno a garantire i versamenti della "prima rata" degli indennizzi: 7.500 marchi per i sopravvissuti ai Konzentrationslager, 1.750 marchi per gli altri.
Fortunatamente i politici tedeschi hanno cominciato a accorgersi, anche se in ritardo, della drammaticità del caso italiano. Alcuni ritengono necessario rifinanziare la legge. Tra loro il deputato Volker Beck, portavoce del gruppo parlamentare verde per le questioni di politica giudiziaria: "Dobbiamo respingere ogni tentativo di 'ridurre' il numero delle vittime con criteri antistorici e cavilli giuridici. La questione dell'inclusione degli internati militari italiani deve essere risolta indipendentemente dai condizionamenti finanziari, a partire da una considerzione obiettiva del loro status giuridico e tenendo conto della loro sorte".