Parma, 24 novembre 2003
Intervista al sig. B. Mario, Poviglio (RE), 1921
Sottotenente dell’Intendenza dell’ 11° Armata, IMI,
Catturato ad Atene, deportato a Benjaminowo, Sandbostel.
Lei è il signor?
Io sono B. Mario e sono nato il 22 aprile del 1921 in Poviglio,
Reggio Emilia. Sono figlio di una famiglia di agricoltori, il mio babbo aveva
una grossa azienda, una grossa discreta azienda, compreso il caseificio industriale
per la produzione del formaggio Reggiano e Parmigiano. Dico Reggiano e Parmigiano
perché noi di Reggio consideriamo il Parmigiano Reggiano nostro perché
è stato portato, come è vero, nel mondo dai commercianti parmigiani,
però la produzione buona è in provincia di Reggio. Infatti se
lei vede, il prodotto viene a costare molto di più, non nelle cascine
dove viene prodotto a Reggio, che non a Parma, che non a Modena, che non a Mantova,
da nessuna parte.
Io ho frequentato le scuole, l’asilo a Brescello, un bel paese sul Po che tutti
conoscono perché c’è stato girato il film di Guareschi “Don Camillo”
e ho frequentato le medie a Viadana. Allora non era com’è adesso. Da
casa mia a Viadana son sette chilometri. Partivo in bicicletta al mattino e
andavo a scuola a Viadana e tornavo indietro e tutti i giorni passavo due volte
il Po. Lì allora c’era un ponte in barche. Da Brescello fino al ponte
ci passa la statale della Cisa, allora non era ancora asfaltata, però
nel ‘32-‘33 è stata asfaltata e io ho potuto usufruirla; però
allora non si sentiva ancora parlare di Bora, di vento che viene dall'est, eccetera
eccetera. Però, tutte le volte che andavo a scuola al mattino, da casa
c’era un vento tremendo che veniva dall’est ed era la Bora.
Mi sono diplomato ragioniere a Viadana, mi sono iscritto a Bologna alla Facoltà
di Economia e Commercio e poi sono stato richiamato. Richiamato ai primi del
1941, poi m’hanno dato due o tre mesi di stare a casa perché le scuole
Allievi Ufficiali dovevano, come dire, finire il corso in atto. La classe completa
è andata via verso marzo del ’41, cioè a vent’anni, molti dei
quali non avevano ancora compiuto i vent’anni, e noi siamo andati in ultimo,
verso la fine dell’anno e siamo … quando si sono liberate le scuole del corso
in attività, in atto, e abbiamo fatto il corso. Il corso allora si svolgeva…
E’ stato uno delle prime volte. Si stava un paio di mesi presso un reggimento
di Fanteria, poi da questo ad un battaglione di addestramento e poi finalmente
la scuola con cinque, quattro-cinque o sei mesi in cui c’era …… Io sono di Fanteria,
però a un certo periodo, di ufficiali di Fanteria si vede che ne avevano
anche troppi perché in tanti plotoni c’era un tenente e un sottotenente
come vice comandante del plotone, quindi era un controsenso! E … c’hanno mandato,
io avevo il titolo di ragioniere, c’hanno mandati, nei limiti del possibile
e dei posti, perché erano pochi, alla scuola di Ufficiali di Ravenna
di Servizi che credo che sia, allora era l’unica che c’era in Italia di scuola
di Servizi: amministrazione, sussistenza, commissariato.
Finito sono stato aggregato a un reggimento d’Artiglieria di Corpo D’armata
a Mantova e qui ho fatto il servizio di prima nomina, tre o quattro mesi, cinque,
non so neanche di preciso.
Di lì, finito il servizio di prima nomina, trattenuto in servizio sono
partito per la Grecia quasi subito. In Grecia sono andato a finire all’intendenza
dell’Undicesima Armata, servizio di contabilità e revisione: cioè
si revisionavano tutte le spese fatte dall’Undicesima Armata da quando era nel
‘41 o nel ‘40, quando è scoppiata la guerra in Grecia, cioè in
Albania, poi in Grecia, e si faceva quello … il lavoro che secondo me doveva
essere fatto dalla Corte dei Conti perché è l’unico che … Però
si vede che nel servizio militare, prima venivano revisionati da noi, poi partivano
per Roma. Quello poi, non lo so dove andavano a finire. Tanto più che
allo scoppio dell’otto settembre, ne abbiamo bruciati … che quasi quasi rischiavamo
di bruciare la chiesa Metropolita della Grecia e anche il palazzo in cui eravamo
dentro noi. Lì vicino alla Reggia, cento metri, c’è la gran piazza
che si va davanti alla Reggia di Atene, con a fianco via Università e
via Stadio, le due vie principali di Atene e lì dopo due o tre giorni,
dopo l’otto settembre, c’hanno detto che il nostro Generale comandante d’Armata
era andato per rapporto, molto probabilmente l’avevano preso e non s’è
più visto, ma che noi ci avrebbero portati tra Vicenza e Belluno e poi
dismessi, mandati a casa.
Abbiamo mantenuto le nostre armi personali, siamo partiti da Atene, ci hanno
dato un pollo da mangiare già arrosto, da mangiare e un qualche cosina.
Abbiamo girato un mese tra Grecia, vicino alla Turchia, Romania, siamo tornati
indietro in Bulgaria, siamo ritornati in Jugoslavia, poi siamo passati in Ungheria,
Kaposvàr. A Kaposvàr c’è stata la prima sveglia. Siamo
arrivati in una stazione, bella città, bella città! Una bella
stazione con due mitragliatrici davanti e due mitragliatrici di dietro. E lì
ci hanno tolto le armi personali. E lì abbiamo anche rischiato perché
sapevamo che andavamo incontro… perché molti ce l’avevano detto perché…,
anche dove ci fermavamo con la ferrovia, in stazioncine sperdute dicevano: “Guardate
che vi portano in Polonia perché la radio ha detto questo e questo”.
E allora quando siamo passati dalla cosa, tutta una serie di stupidaggini, dalla
… dalla Jugoslavia in Ungheria, sul gran ponte del Danubio, i percussori delle
pistole sono volati nel Danubio. Se avessero guardato ci avrebbero fucilato,
e va beh; e li c’hanno preso le armi, e poi attraverso il lago Balaton una notte,
una sera, ci siamo trovati a Linz e hanno detto: “Lo sai che domani siamo a
Bolzano?”. La notte il treno va, eravamo in un treno merci. No, non in un treno
merci, eravamo ancora in treni che c’erano una volta… quelli che c’hanno tutte
quelle porte laterali, che si saltava da una parte e dall’altra, che si usavano
molto lì perché i soldati facevano presto a saltar giù
se per caso scoppiava qualche bomba lungo la ferrovia. E al mattino, ci siamo
accorti che il sole non era dove doveva essere, ma era dalla parte opposta,
e quindi stavamo andando verso nord. Infatti la prima stazione che capita, München,
Monaco di Baviera, ho detto: “Qui ragazzi miei ……”. Siamo passati per Lodz che
allora era, non so se era dentro il confine tedesco oppure sul polacco, ma era
lì … era lì in confine a pochi, pochi chilometri, poi va e siamo
andati a finire in Prussia.
Ricordo bene in quel periodo però, lì si andava per le linee ferroviarie
principali, mentre prima ci facevano fare tutte le linee secondarie dell’Europa
per non intralciare le loro truppe che andavano giù ad occupare i nostri
posti: naturale! Siamo arrivati, non siamo passati per Königsberg, siamo
passati per i laghi Masuri e Allenstein. E ci siamo anche divertiti a vedere
i laghi Masuri con tutti gli animali del bosco che saltavano fuori al passaggio
del treno. Il treno va, e siamo arrivati in un campo chiamato Stalag, mi sembra
numero 2 ed era in Lituania. Dicevano che eravamo a circa cento chilometri a
sud-est di Vilnius. Lì siamo stati fermi molto poco. Lì le posso
raccontare una piccola cosa: al mattino eravamo lì, e sento urlare da
un’altra parte del campo, ma uno che gridava il mio nome, io non avevo capito
e allora saltan fuori gli amici che dicevano: “B.! C’è uno che chiama
B., c’è un soldato che chiama B.”. Vado e i due reparti erano divisi
da due fili spinati, in mezzo ci passavano le sentinelle, quelli che noi chiamavamo
le vacche, e lui mi dice…. e l’ho riconosciuto. Era un ragazzo con cui cui avevamo
fatto il premilitare insieme a Poviglio, il mio paese, eravamo anche amici,
molto amici insomma! E mi dice: “Lo sai che giorno è oggi?” E io dico:
“No, ho perso completamente la cognizione del tempo, del posto e del luogo …”.
E lui m’ha detto: “E’ la fiera di Poviglio”. La fiera di Poviglio avviene la
seconda domenica di ottobre; quindi o era l’otto come minimo, o era il quindici,
come massimo. Quindi dall’otto al quindici, partendo di là il giorno
dodici o undici di settembre, siamo rimasti in treno 27-28 giorni. Tra l’altro,
la cosa, il galletto ce lo siam mangiati e per trovare un po’ da mangiare, perché
nessuno ce ne dava, abbiamo incominciato a vendere le mutande e le camicie.
Avevamo delle camicie con le maniche corte perché era caldo, senza pensare
a cosa si andava incontro e là abbiamo incominciato a trovare il freddo.
Lì con … c’hanno messo la solita tabellina davanti, la lavagnetta, ognuno
ci metteva il numero progressivo, cancellava l’ultimo numero e poi andava avanti.
E lì c’hanno immatricolato, c’hanno preso le impronte digitali, eccetera
eccetera: Poi dopo non so un giorno o due o tre o quattro, siamo ritornati indietro
per i laghi Masuri e siamo andati a Benjaminowo.
Dunque Benjaminowo, adesso so, ho saputo che è poco distante da Varsavia,
ma loro dicevano che erano cento-centocinquanta chilometri a nord-est di Varsavia,
credo che sia quella la zona. Però mi hanno detto, adesso mi sembra,
mi ha detto mio figlio: “Guarda che ho visto sulle cartine geografiche che sembra
che sia più vicina”. Ho detto: “Guarda, allora avevo tutto da guardare
meno che dove andavo”. Si guardava dove si mettevano i piedi per non cadere,
perché se cadevi ti arrivava qualche cosa sulla schiena, c’erano le guardie,
c’erano le SS che ti spingevano quindi c’è poco da fare, e siamo arrivati
lì. Un campo disabitato. Non c’era dentro nessuno, siamo arrivati per
primi. In certe baracche c’erano due dita di polvere, con delle pulci nere grosse,
che lei non immagina; e come veduta, unica veduta in mezzo alle montagne russe,
perché ci sono già le montagne russe, piccoli avvallamenti che
vanno su e giù, c’era un gran campo sterminato contro la montagna russa
con tante di quelle croci che lei non ne ha un’idea! Centinaia, migliaia di
croci. E c’hanno detto che lì dentro, alcuni mesi prima, erano morti
circa quarantamila russi di tifo petecchiale. E allora ho detto: “Va beh, in
tre o quattro mesi non so se il tifo petecchiale sparisce, se quella pulce che
mi ha morso può trasmettere”…. Dicevano che la trasmissione era, cioè
avviene, tramite la puntura dei pidocchi. Perché nessuno sa niente di
pidocchi, tutti tacciono, però tutti ce li avevano e tutti tacevano.
Perché? Perché gli unici discorsi che facevano là dentro,
non si parlava di donne, non si parlava di niente, ma era solo e solamente un
unico parlare: di mangiare!
“Vieni qua che ti racconto una bella … una bella … cosa da mangiare che lo fanno
ad Ancona, oppure che lo fanno a Trento, oppure che lo fanno in Sicilia, eccetera
eccetera”. A un certo momento anche quelle cose lì, a un giovane di ventuno
anni che ha fame, diventa una cosa molto noiosa, molto noiosa, ti stanca e non
vuol più sentire nessuno e ti metti dentro nel famoso castello, non era
mica un castello intendiamoci bene eh! Era un postino a tre posti, lì
penso che all’inizio non ci fossero neanche i materassini, cioè di paglia,
non c’era neanche la paglia, si dormiva per terra.
L’unica cosa in cui sono stato fortunato è stata questa: quel mio caro
amico di Poviglio, visto che nel suo campo c’erano dei mucchi di cose, di …
come si chiamano, delle coperte di casermaggio, quelle belle coperte di casermaggio
di un colore chiaro, con la stella dell’esercito e c’ho detto: “Guarda che veniamo
dalla Grecia, noi non c’abbiamo niente”. Quelli lì: “Ta cià”.
E le avevamo, ma ce le hanno requisite. E c’ho detto: “Me ne puoi buttare una
per favore attraverso il reticolato?” E lui mi fa: “ma se quello là mi
vede mi spara!”E va beh. E lui mi dice: “E voi cosa avete?” “Guarda noi non
abbiamo altro che delle Papastratos, delle sigarette!” Abbiamo svaligiato si
può dire di sigarette, il magazzino dell’Undicesima Armata e ci siamo
messi in tasca quello che abbiamo trovato! Sigarette. E allora c’abbiam buttato
attraverso… mentre che la guardia andava là in fondo, avanti e indietro,
e lui mi ha buttato due o tre coperte che ho preso io e i miei amici che erano
lì attorno. Poi han detto: “Adesso bisogna salvarla!” Cosa abbiamo fatto?
Con una forbice le abbiamo tagliate il buco e ci siamo andati dentro, e le abbiamo
messe sotto il pastrano, accorciate un pochino. E’ stato quello che ci ha salvato
del resto. Perché quando siamo arrivati a Benjaminowo c’era un gran mucchio
di coperte e c’han detto: “Ne prendete due per uno”. Tirane fuori una, me n’è
capitata in mano una che, secondo me era molto pesante, tirala fuori: era un
copertone … cioè una coperta molto grossa, molto probabilmente non c’era
dentro neanche della lana, chi lo sa. Però metterla sotto, metterla di
sopra, in mezzo, insomma serviva moltissimo. Perché lì di fuochi,
c’erano delle stufe lì fatte di mattoni, ma di legna o di carbone io
non ne ho mai visto uno, non ne ho mai visto un mezzo … un mezzo… un mezzo etto,
niente, non ce n’era! E lì siamo stati dentro fino al marzo, a metà
marzo del ‘44.
Quelli sono stati i mesi più brutti della mia vita, non ho vergogna a
dirlo. Brutti nel senso che giorno dopo giorno senza che uno se ne accorga,
va giù …va giù … non ha più voglia di niente, non desidera
più niente, non ha voglia di parlare, non ha voglia di niente sta lì!
L’unica cosa era andarsi a infilare dentro un po’, quando non c’erano le conte
che duravano delle ore, mattina e sera, due volte al giorno e quando si tornava
alle dieci per mangiare, cosa succedeva? Che ti davano il mangiare. In cosa
consisteva? In sei mesi, ti davano le “steckrübe”. Le “steckrübe”
non erano altro che una via di mezzo tra una rapa e una barbabietola. Ho visto
che le davano alle vacche, alle mucche. D’inverno le tagliavano con le macchine
e facevano le fette, lì invece le tagliavano con … come si dice in italiano
… quello che noi in dialetto lo chiamavamo il “maràs”: è un coso
da tagliare, da tagliare in sette o otto parti. Le cuocevano nelle loro marmitte,
mettevano tre grammi di margarina a testa come condimento e quello più
una fetta di pane, divisa per diciotto perché formavano le squadre di
diciotto, diciotto parti, e due patatine così.
A un certo periodo in dicembre, ci davano ogni quindici giorni un cucchiaio
di marmellata, di ciliegie, quella rossa. E allora con dei miei amici abbiamo
detto: “Andiamo verso Natale, ci facciamo qualcosina? Sì, sì lo
facciamo, lo facciamo”. E allora un giorno risparmiavo un quarto di una patata,
il giorno dopo me la mangiavo, e ne tiravo fuori una metà, di modo che
dopo quindici o venti giorni, ci siamo trovati con tre patatine a testa o quattro,
in più anche la marmellata. Alla sera …… ma fredde le abbiamo mangiate,
e per Natale pensavo proprio di rimetterci la pelle, perché quelle tre
patate, sporcate di rosso della marmellata, mi sono rimaste sullo stomaco, pensavo
proprio di morirci. Un mio amico mi prende, l’altro mi prende, battuta: “Ha
fatto male?” “Sì mi fa mal lo stomaco!” “Dai! Andiamo fuori a camminare
un pochino”. “Camminare fuori?”. Voleva dire camminare a venti sotto zero, quindici
quando andava bene, venticinque quando andava male! Così è passato.
Lì in Polonia quello che ricordo è questo: che per settimane,
dieci giorni, quindici giorni, venti giorni, un cielo buio quasi come se l’avessero
… e le stelline che vanno, che girano su e giù, giù e giù.
Non era neve erano stelline gelate, quelle piccolissime di tre o quattro centimetri
a cinque stelle, che sembrano … che sembrano fatte sul tipo, non so, dei brillanti
dei diamanti che son fatti in quel modo, è la stessa cosa della natura
eccetera. Queste davano già … quando una di queste ti pungeva, ti finiva
in faccia, era come se uno ti desse una puntura di spillo e poi naturalmente
rimanevano piccole goccioline d’acqua. Queste qui andavano su e giù per
settimane e settimane con il freddo. Questo rimane impresso perché una
coperta in testa, tutto scoperto: “Ma stai attento che arriva! Bam!” e dico:
“Va beh”.
E lì mi trovai un mio carissimo amico, tutti e due imbacuccati e io mi
volto e dico: “Ma non sarà?”; e lui si volta indietro e dice: “Ma non
sarà?” E lì ci siamo abbracciati e abbiamo pianto. Poi tramite
un capo baracca, il nostro capo baracca siccome è anche il nostro capo
baracca, che poi non so chi l’abbia detto è, era un capitano, e abbiamo
fatto in modo che lui venisse nella nostra baracca. Era di Reggio anche lui,
è venuto con me. Siamo stati assieme, siamo andati a Sandbostel. Siamo
rimasti lì assieme tutto l’anno, poi una sera dopo Natale del ‘44, il
mio caro amico Remo non si fa vedere. Era andato fuori e mi dice: “No guarda
Remo è fuori, F. è fuori!”. Ho detto: “Ma … non lo so … era qui
adesso, non lo so dove va”. Dopo un po’ torna indietro, perché alle nove
le luci si abbassavano molto nelle baracche e non ci si vedeva quasi più,
mi tira da una parte, mi abbraccia e si mette a piangere. Ho detto: “Ma cosa
ti è successo?” E lui mi dice: “Guarda!” E mi fa vedere un fazzoletto
che era sporco lurido, ma in mezzo c’era una chiazza così di sangue:
ha avuto uno sbocco di sangue. Dopo abbiamo dovuto denunciarlo, e l’hanno preso
e l’han mandato in un campo di cura, dicevano loro. E il campo di cura era Belsen,
ecco. Però essendo già fine anno, inizio gennaio, se l’è
cavata!
Lo sono andato a trovare dopo, alla fine del ‘45, che era in un tubercolosario
su a Cortina D’Ampezzo, e insomma è venuto a casa, si è sposato,
ha avuto dei figli, ha fatto la sua professione. Era un maestro, ha insegnato,
sua moglie era una maestra e insomma, s’è barcamenato mica male! E’ stato
bene, soltanto che c’è morta la mamma di un brutto male, e la mamma …
la moglie: è rimasto solo, e a lui piaceva la montagna. E’ andato nel
lago di Misurina e al lago di Misurina un ictus tremendo l’ha stroncato e non
ha più ripreso conoscenza.
Nella nostra … in collina c’abbiamo una piccola casa in cui c’andiamo d’estate,
e lui è venuto qualche volta a trovarmi e rimaneva lì con me.
Però non parlavamo mai né di Sandbostel, né di Benjaminowo.
C’era solo mio cognato, anche lui professore di Italiano, voleva sapere delle
cose da me. Diceva: “Veh!”. Io dicevo: “Piero lasciami stare che io non voglio
parlare di quelle cose”; e allora faceva l’interrogatorio di terzo grado a Remo
il quale era molto buono, molto simpatico e alla mano, e allora si prendeva
la briga di spiegargli qualche cosa, ma …così; e quindi anche lui ci
ha lasciato. Dopo un po’ ricevo la lettera dalla figlia, mi manda, il suo coso,
il santino che si fa in quelle occasioni e mi dice: “Mio babbo ha lasciato cinque
di queste cartoline ai suoi più cari amici”. “Cinque persone” ho detto,
“ma ne avrà avuto di più!”. “Si, ma di amici ce ne sono pochi
al mondo!” Poi io dico: “ma guardi che a me sembra … mi sembra di averne di
più!” “No, no”, diceva, “io non ho amici, io ho voi soltanto e basta!”
“Ma scusa, ma tu che non vuoi ricordare eccetera eccetera?” “Ma io non voglio
ricordare! Ma i miei amici si!” E quindi era una cosa diversa, era un gran bravo
ragazzo!
E così, piano piano gli anni passano; io non sono mai più voluto
tornare anche avendone la possibilità. E questa estate non so come, sono
rimasto ingabbiato. Sono rimasto ingabbiato … dico io “Mi avete ingabbiato!”
E sono andato con il “Club 23” a Sandbostel e a Wietzendorf. Io sarei andato
non a Sandbostel e a Wietzendorf perché per me lì era già
un più. Era Benjaminowo che volevo vedere, ma a Benjaminowo mi han detto
non c’è più niente. Hanno fatto sparire tutto! E’ là che
è stato un impatto, un tremendo impatto. Dopo lì … e … si stava
bene, praticamente rispetto a là, perché c’era l’estate del ‘44,
perché l’inverno del ‘44-‘45 non è stato così tremendo
come l’inverno ’43-‘44. Mi dicono che sia stato l’inverno freddo, però
la zona era molto diversa perché lì l’aria, si è a quindici
chilometri dal Mare del Nord è più … non è quella che veniva
dalla Siberia o direttamente dal Polo Nord, quindi era tutta una cosa diversa.
Quindi lì siamo stati anche bene praticamente. Abbiamo visto i bombardamenti
d’Amburgo, i grandi bombardamenti d’Amburgo. Per una settimana non usciva altro
che un gran fumo nero, e m’han detto che dopo, dove avevano buttato bombe ad
ossigeno liquido, c’han buttato le bombe incendiarie e s’è incendiato
l’asfalto delle strade e tutta la gente è morta chi nei rifugi, chi fuori:
è stato un macello!
E poi sono arrivati gli anglo-americani, da noi sono arrivati gli inglesi e
abbiamo capito subito che era un andazzo che non andava molto bene. Ci davano
un pochino più da mangiare, però non eravamo trattati come… come
speravamo che fosse.
E i quattro, io e gli altri tre, una mattina siamo scappati. Siamo usciti dal
campo, perché la conta lì non c’era più. Io non avevo più
nessun impegno contro nessuno, né contro il governo di prima, né
il governo attuale, né l’altro. Io mi sentivo libero di fare tutto quello
che potevo fare per salvarmi. E ho fatto quaranta o quarantacinque chilometri
e siamo andati a Brema, perché sapevamo che a Brema c’erano gli americani.
E lì è stato un tripudio di gioia e di amicizia anche. Gente che
chiamava: “compare!” Che parlavano, che pretendevano che tutti parlassero napoletano
perché il loro padre o di seconda o di terza generazione, proveniva da
Napoli o da Palermo. Pretendevano che noi fossimo in grado di parlare il loro
italiano che non era altro che la lingua… che non era altro che napoletano o
palermitano o siciliano, eccetera eccetera. Però c’hanno detto: “Guardate
non vi possiamo portare dall’altra parte della città dove c’è
una grande caserma che è rimasta quasi intatta, e là fanno il
punto di raccolta”. C’hanno dato da mangiare, c’hanno insegnato: “Voi seguite
questa via e arrivate dall’altra parte della città”. La via non la si
poteva mica perdere, perché abbiamo camminato per quattro ore al mattino,
tre ore al mattino e tre ore al pomeriggio, abbiamo passato Brema, e non abbiamo
visto una via laterale. Tutto una maceria, al massimo alta tre metri, una puzza
che non le dico! Ci siamo accorti che eravamo nel centro di Brema perché
c’era la Cattedrale, il Duomo di Brema, magnifico, di arte gotica, le torri,
eccetera eccetera, e quattro o cinque palazzi attorno che erano rimasti intatti.
Cosa abbiamo fatto? C’era un caldo tremendo perché era giugno, i primi
di giugno-luglio e siamo andati dentro nel Duomo, ci siamo messi su una panchina,
abbiamo aperto qualche scatoletta, abbiamo mangiato e ci siamo addormentati
perché non ne potevamo più dei quarantacinque chilometri fatti
il giorno prima! E così ci siamo addormentati dentro nel Duomo. Poi siamo
ripartiti e alla sera siamo arrivati là dove c’erano gli altri, un posto
di accoglienza degli americani. Ci hanno messi in una bella stanza, ci han dato
da mangiare, fumavamo i sigari Avana, e insomma lì siamo rimasti una
ventina di giorni perché dovevano formare un gruppo di circa duecento
persone per fare una tradotta.
Di lì con i camion, dopo, c’hanno portato non so se Hannover o Braunschweig,
dove partiva il giorno dopo un treno. Treno, una tradotta, carri bestiame e
… però erano aperti. Infatti ho detto: “Guarda che io in un carro bestiame
ci sono stato abbastanza e non ci sto più qui!” E sono andato a finire
sul tetto. E m’han detto: “Stai attento perché ci sono dei fili dell’alta
tensione che sono strappati eccetera eccetera. Se qualcheduno è un po’
abbassato, ti prende e ti porta giù”. Comunque eravamo tutti là
sopra, e da lì in un giorno siamo arrivati quasi, non al Brennero, ma
in Austria, vicino a Innsbruck. Il treno va su una via laterale e lì
ci siamo fermati la notte. Il mattino riparte, il giorno dopo arriviamo a Bolzano,
e dovevamo andare a Pescantina dove c’era il raduno. Però, mentre ero
lì davanti alle cose, sento uno che grida: “Parma e vicinanze!” E io
ho detto: “che cosa vuoi da Parma?”. “Se sei di Parma scendi che ti portiamo
a casa noi, c’abbiamo qui un camion, che noi veniamo tutti i giorni”. Ho detto:
“guardate che io non sono di Parma, sono della bassa reggiana”. “Sì,
sì, meglio ancora che a Parma!” insiste, “perché?” gli ho detto,
“perché quando siamo a Guastalla ci fermiamo verso le quattro, le cinque
quando arriviamo domani, e lì c’è salame e vino”. E allora i camionisti
si fermavano molto volentieri e ci han preso su. Quando siamo passati per …..
si ferma, mi mette giù, e io a casa, torno a casa, un paio di chilometri
a piedi. Anzi c’è stato un signore molto cortese che ha tirato fuori
una macchina che non tirava fuori da due anni, e che non c’aveva neanche il
permesso di circolare allora, ma io ho detto: “ma guardi che io non voglio mica
metterla … guardi che due chilometri per me è un’inezia, mi sembra di
fare una passeggiata di due passi!”. “No, no, no, no, no: io la porto a casa”.
E così sono arrivato a casa ecco, e lì finiva l’avventura!
E poi ci sono state … il distretto militare, siamo andati, abbiamo … c’hanno
dato i soldi che ci spettavano, c’hanno dato due o tre mesi, o quattro o due
non so, non mi ricordo, di licenza precongedo anche per darci qualche soldino
in più, perché uno si potesse mettere …
Soltanto che io pensavo di potermi impiegare, di poter lavorare, perché
nelle aziende di mio babbo non c’era possibilità. Anzi oramai l’agricoltura
stava andando in un modo in cui, se prima su cento ettari di terreno dovevi
per forza occupare venti persone, dopo ne occupavano cinque, sei, due, tre,
come le macchine che arrivavano. Era una cosa superata!
Però a Reggio ci sono stati i partigiani di maggio, i cosiddetti partigiani
di maggio. Io non voglio entrare in politica, nel modo più assoluto non
… però allora uno che conosceva un capo partigiano e gli dava cinquantamila
lire o ventimila lire, quello gli rilasciava l’attestato di partigiano e con
questo attestato di partigiano poteva andare ad occupare un posto: o in una
banca, o in un comune, o in un ospedale, dove voleva. Quando siamo arrivati
a casa noi a fine luglio-agosto, non c’era più posto per nessuno. Allora
ho dovuto ricorrere ancora al vecchio genitore. Ma sa, a venticinque anni, con
tutto quello che si è passato, e doversi far mantenere ancora dai genitori
è un po’ dura, è dura, non si può! E allora il mio babbo
mi ha detto che lui mi avrebbe sostenuto negli studi fino alla fine. Pensi che
ero iscritto a Bologna, ero già fuori corso, e avevo dato quattro o cinque
esami. Va beh! Però in tre anni li ho recuperati e li ho dati tutti.
Mi sono laureato, qualche esame dato prima, che si davano per avere cinque o
tre giorni di licenza, andavo là, si combinava il diciotto e si veniva
via. E questo dopo, me l’ha portato giù un po’, come dire, la media.
Però ho fatto una magnifica tesi di laurea che m’ha portato su più
di quindici punti e sono arrivato con 95-98, non so … non mi ricordo neanche
più! Che non conta più niente intendiamoci bene, non conta niente!
Perché poi, senza dare esame, sono entrato per concorso alla Cassa di
Risparmio di Reggio Emilia. Lì mi sono trovato molto bene, in poco tempo
sono arrivato al capo reparto, capo ufficio, e in una succursale come primo
nella succursale, succursale di terza in cui eravamo io e un altro. Quindi su
nella collina lì… Ma ci sono stato tanto bene con mia moglie, perché
in collina, o mezza montagna diciamo così, c’erano delle persone tanto
buone. Sono persone buone! Noi della bassa, noi della pianura non siamo così,
siamo più cattivi. Vado contro il mio interesse a dire così, non
il mio interesse … però è così. Siamo stati molto bene.
Poi siamo andati nella filiale di seconda, giù vicino a Modena, sulla
zona di Modena e poi siamo arrivati a Brescello. A Brescello siamo stati parecchio,
qualche anno. Perché poi allora già era cominciato a finire il…..
Quando uno arriva in una filiale, che è a capo della filiale, rimane
lì per tutta la vita. Invece no, non si possono lasciare lì tutta
la vita. Uno deve avere la possibilità di andare in un’altra, cambiare
perché quando si cambia si migliora. Si migliora sempre, nuove persone,
nuove conoscenze, nuovi interessi, eccetera eccetera. Se uno si fossilizza è
già finito.
Da Brescello sono stato chiamato a reggere l’agenzia centrale a Reggio, la seconda
agenzia della Cassa di Risparmio: sessantacinque persone. Poi è finito.
Sono andato in pensione, tanti cari saluti, oggi è tanto tempo che sono
in pensione. Oggi non ricordo più neanche che cos’è una banca,
perché ho dimenticato anche quella e mi sono dato a qualche piccolo hobby.
Vediamo di approfondire qualcosa. Lei ha detto che i suoi avevano un attività agricola, lei è figlio unico?
No, c’ho un fratello e due sorelle, c’avevo. Mio fratello c’è ancora e ha mandato avanti lui praticamente quello che c’era rimasto della azienda agricola, ma più che altro il caseificio. Adesso ha smesso, ha novant’anni poverino, capirà! Una mia sorella che dovrebbe avere, se ci fosse ancora, avrebbe un anno di meno, e quindi, è morta alcuni anni fa.
Suo fratello non aveva fatto il militare?
No, mio fratello era a militare, lui aveva fatto i primi anni della Zanelli lì a Reggio: è una scuola di agraria.
Il Parmense è una zona abbastanza calda, perlomeno all’inizio del fascismo. Ma quello che mi interessa capire è l’atteggiamento della sua famiglia rispetto a tutta la questione.
Gli dico subito, quando in gennaio … quando in gennaio o fine
dicembre a Benjaminowo sono venuti per il reclutamento e che in una giornata
grigia, buia e fredda, eccetera eccetera, c’era da dare il sì o il no
su quei fogliettini scritti, io ne ho visto uno, una volta scritto lì
che me l’ha fatto vedere adesso, ma non era mica quello che ho visto io: “Giuro
di eseguire gli ordini del Führer del nazismo e del Duce del fascismo e
di obbedire”. Era tutto incentrato sul Führer prima e su Mussolini dopo.
Siccome noi eravamo così giovani, a me è capitato di chiedere
a qualche capitano che era più vecchio ….se io ne avevo ventidue, lui
ne avrà avuti trentadue, insomma, ma per noi erano vecchi, perché
a vent’anni uno di trenta è vecchio! “Non mi chieda di quelle cose! Non
voglio sapere niente o per l’amor di Dio fate quello che volete!”. Va beh e
allora mi sono messo lì da una parte, nel castello e dicevo: “se fosse
il mio babbo cosa farebbe?” E allora mi sono ricordato che lui era un vecchio
del Partito Popolare, don Sturzo eccetera, che quando si parlava di Mussolini…
Nel senso che sa, sono arrivate anche le prime leggi di come, forse anche fatte
bene, le prime leggi per la mano d’opera, le prime leggi per le pensioni eccetera
eccetera. Però a certa gente davan fastidio, perché? Perché
in agricoltura non s’è mai parlato di pensione per gli operai dell’agricoltura.
Allora la pensione la gente se la faceva facendo figli. Più figli uno
faceva più era sicuro che i figli l’avrebbero mantenuto, ipoteticamente.
Io allora sentivo qualche volta qualche incidente; mia mamma che diceva … che
cercava di smorzare la questione, eccetera eccetera, e così andava avanti
la cosa. Quindi non era fascista, non è mai stato fascista. E io ho detto:
“beh, vado a tradirlo! Adesso che mi trovo in difficoltà, perché
devo andare contro di lui o contro le sue idee?” E io, un pochino per quello,
un pochino perché mi avevano rotto, nel senso che oramai dopo tre mesi
che si era dentro ce n’era già tanto sul gozzo dei tedeschi, che guarda:
“con quella gente lì non ci vado neanche se m’ammazzano!”. Però
si diceva: “Guardate che qui c’è scritto bel chiaro, siamo nelle loro
mani”, e ci dicono: “state con noi o siete contro di noi”. E se per caso salta
fuori la vecchia storia che era successo agli ufficiali polacchi alle fosse
di Katyn? Se ci avessero fatto lo stesso servizio? Per ammazzare diecimila là
e diecimila lì, forse meno in quel campo lì, no poi a Benjaminowo,
noi saremo stati forse tre o quattromila, non di più. Fanno presto qui,
allungano la fila di quelle croci là, magari ne fanno una per cento,
e però sa, nella beata gioventù non ci si pensa e si va, e abbiamo
detto di no! Ecco cioè non detto di no, non abbiamo firmato e basta!
Il mattino dopo ci hanno divisi, perché poi verso le sette alla sera
quando subentra il fatto, le voci: “hanno accettato il novanta percento!” “Il
novantacinque percento ha accettato!” E allora sa, la fifa, se rimangono solo
in cinque quelli lì fanno una brutta fine! Poi abbiamo visto che era
l’inverso, che aveva accettato il sei e sette percento sì e no, e poi
che tra questi ci sono stati quelli che si sono ripresi la loro firma, l’hanno
voluta indietro, e gliel’hanno data eh! Si sono pentiti di avere firmato! Quindi,
tra invece che in partenza erano sette, otto, nove percento, si saran ridotti
al cinque, sei percento non di più. Quindi diciamo una grande percentuale
è rimasta. E io, la mia decisione è stata quella, ho detto: “cosa
farebbe il mio babbo?”
Quanto ha influito l’educazione fascista sul suo percorso ?
No, è stata una gran noia. Lo dico subito, primo perché noi studiavamo e al sabato mattina si doveva andare a scuola in divisa, però andavo a Viadana e io ero di Poviglio, facevo i miei sette chilometri e lì, con la scusa che a Poviglio non davano la divisa da avanguardista, quelli di Viadana dicevano: “devono darvela loro”. Quelli di qua dicevano: “ma devono darvela quelli là”; e allora la divisa non è mai arrivata. E allora il preside, che poi dopo si è dimostrato essere un grande antifascista ha detto: “tagliamo la testa al toro: venite con la camicia nera”. Ma io non mi porto un accidente la camicia nera, metto una camicia nera, una cravatta nera e sono come prima! Ecco. E a scuola al sabato mattina, invece di andare in divisa c’andavamo così. Al pomeriggio c’era il premilitare che l’andiamo a fare a Poviglio. Ma era un po’ una stupidaggine, nel senso che ogni tanto ti facevano fare qualche marcetta, avanti un chilometro, ma più che altro serviva per stare insieme tra di noi a scherzare e ridere. Non era una cosa seria! E da lì abbiamo imparato che di cose serie non ce n’erano, non c’erano cose serie! E aveva ragione il mio babbo quando mi diceva che erano tutti dei farabutti.
A un certo punto venite chiamati alle armi, la guerra era già cominciata.
Nel ‘41 e nel ’40. Mi ricordo ancora che eravamo in casa, abbiamo sentito la radio, c’era d’andare alle famose riunioni e io ho detto a mia mamma: “c’andiamo?” “Io c’ho da lavorare lì nei campi”, non c’andavo perché non potevo eventualmente andare nei campi. Perché se andava nei campi lui, chi portava avanti l’azienda? Lui doveva andare ai mercati e sapere i prezzi, eccetera, eccetera, niente, e m’ha detto di non andarci.
Ma che riunione era?
Quando è scoppiata la guerra, nel venti di giugno del
‘40, sono suonate le campane, e come sono suonate il due di ottobre quando sono
andati in Abissinia, c’era d’andare tutti riuniti in piazza dei paesi a sentire
le parole del Duce. Quando c’è stata la famosa frase: “Che mi rifiuto
che il popolo francese sia contro di noi, che il popolo inglese contro di noi
…”; insomma, una dichiarazione di guerra. Sono rimasto a casa, sono rimasto
attaccato alla radio e mio padre ha detto solo una cosa: “quello ci porta alla
rovina”; “ma babbo perché?” “Perché non la possiamo mica vincere
la guerra! Non la possiamo vincere! Ma come si può!”.
E lì … ed è finita lì. Quindi sapevo che il mio babbo non
era di quel parere, non era di quel parere ecco. Finita la guerra naturalmente
è arrivato, le votazioni del ‘48, eccetera eccetera.
Dicevamo: lei viene chiamato alle armi nel ‘41.
Nel ’41, sì. La guerra era iniziata nel ‘40, cioè neanche un anno prima, perché siamo stati richiamati in marzo, in marzo, poi dopo io sono stato mandato a casa perché dovevo aspettare il turno per andare a scuola di ufficiale. Sono andato Allievo Ufficiale, mi sembra verso la fine di novembre.
Suo padre aveva capito quello che sarebbe stato il carattere della guerra?
Aveva capito subito il primo giorno
Quindi lei con che spirito andava a fare il servizio militare?
Si, ma c’è … siamo sempre rimasti un po’ fuori, e poi
sa, avendo anche un caseificio e così: un po’ di burro partiva per la
montagna, un po’ di altro partiva per altri posti, poi insomma hanno cercato
di barcamenarsi e via. E quindi non hanno avuto dei grossi dispiaceri, anzi
nessun dispiacere, né da parte degli uni né da parte degli altri,
perché molto probabilmente li rispettavano e gli uni e gli altri. Infatti
dico, quel mio carissimo amico che è arrivato stamattina, uno dei quattro,
si è ritrovato a fare la Guardia Nazionale. Non so come la chiamassero
… Nazionale Repubblicana, Repubblicana, lì proprio a Poviglio. Quindi,
un giorno è andato a trovare mia mamma, per il mio ricordo, con due persone
davanti, sui parafanghi davanti coi mitra spianati, due di dietro su ‘sta macchina.
Ha spaventato tutta la gente, arriva dentro in corte e mia mamma dice: “ma cosa
abbiamo fatto qui adesso, cosa succede?”
Salta giù e dice: “signora, non abbia timore, io sono F., sono il comandante
e sono venuto a trovare lei perché è la mamma di Mario. Io sono,
ho fatto la scuola di Allievi Ufficiali con Mario, siamo amici, ho visto anche
la fotografia eccetera, eccetera. Siamo molto amici e sono venuto a trovarlo,
a vedere se avete bisogno di qualche cosa da me”. “No guardi ”. E allora sa…
Quando mia mamma li ha tirati in casa, non so … gli avrà offerto qualche
cosa e gli metteva … sa … si lamentava e diceva: “ma Mario è tanto che
non scrive, chissà come starà male eccetera, eccetera, chissà
come starà male eccetera, eccetera!” Lui l’ha abbracciata e gli ha detto:
“signora, Mario sta meglio di me!”. Quindi era consapevole a cosa andava incontro,
soltanto che, una volta entrato in quel ingranaggio, non è più
riuscito a starne fuori. Perché? Perché due suoi fratelli erano
nelle Brigate nere, però non si chiamavano Brigate nere, erano andati
in Russia, a combattere in Russia. Erano dei fiancheggiatori dell’esercito,
ma non erano Brigate nere. Avevano un altro nome … erano fascisti combattenti
e c’hanno rimesso la pelle tutti e due là.
Con che spirito lei andava in guerra?
Ho accettato la cosa, anzi diceva mio fratello: “guarda che col mio babbo, vah
se … se posso fare qualche cosa …” “No, io voglio seguire il corso naturale
delle cose. Non voglio né spinte da una parte né spinte dall’altra,
perché se per caso la spinta è andata male puoi andare a finire
nel fosso e però mi dici che cosa hai fatto, hai pagato, oppure non lo
so hai fatto tribolare, eccetera, eccetera per farti dare una spinta, per andare
per questa strada, e qui hai trovato la morte oppure qualcosa di diverso. Io
vado dove mi mandano”. Io non ho mai voluto fare niente. Come chiamavano partivo
e andavo. Facevo il mio dovere senza strafare, però note di demerito
non ne ho mai avute, ma neanche di elogi.
Quindi ha fatto il corso Ufficiali a Ravenna?
A Ravenna abbiamo studiato. Si studiava ragioneria e tecnica
Quindi lei era destinato a un lavoro d’ufficio?
Io ero destinato a un lavoro d’ufficio.
Non era un reparto operativo?
Una volta che a Palermo mi hanno chiamato e m’hanno detto: “guardi che lei … guardi che tu non vai a scuola qui”; perché dovevo andare a scuola di Allievi Ufficiali di Palermo, di Fanteria che era considerata una delle più difficili d’Italia, cioè ma delle più dure, delle più dure, “ va a Ravenna”. E io ho detto: “cosa c’è, cosa c’è?” “Ma perché non lo sai?” “Ma che sappia io cosa c’è a Ravenna?” “Ma c’è la scuola di Allievi Ufficiali di Complemento dei Servizi!” E io ho detto: “si vede che mi hanno preso! Se vado là m’avranno preso!” Hanno voluto anche il diploma di ragioniere, sa un diploma del sette, una media del sette, quindi proprio normale, normalissimo quindi, né otto né … però una media del sette, quindi niente di straordinario. Ma si vede che c’avevano bisogno, avevano bisogno di sfollare degli ufficiali di Fanteria che ce n’erano troppi, quindi non sapevano neanche dove metterli.
Con il servizio militare lei, come la maggior parte dei giovani della sua generazione, gira un po’….
Da Ravenna dopo abbiamo fatto gli esami, sa ancora gli esami fatti con le palline bianche e nere … sa, le tre palline dentro l’urna, era una roba, era una roba …. C’era un esaminatore e due che stavano lì ad assistere, due altri ufficiali. C’era un maggiore che faceva gli esami. Quando si tratta di votare ognuno mette dentro in un vaso una pallina, poi tirano la cassetta, se sono tre palline bianche lei è promosso, se ci sono due bianche e una nera è promosso con …… se ce ne sono due e una … due nere e una bianca è bocciato. Quando l’abbiamo saputo abbiamo riso, abbiamo riso per delle settimane. Ancora in Italia c’era l’esame con le palline! Va beh. Comunque sono stato promosso e sono andato a Mantova, dopo dieci o venti giorni sono venuti da Firenze che c’hanno fatto i vestiti e non hanno voluto niente, naturalmente li abbiam pagati con i primi stipendi, i primi quattro mesi di stipendio, e finito, finito la prima nomina,dopo son partito e sono andato d Atene.
Subito Atene?
Sì, sono partito da Mestre.
Quando è arrivato ad Atene?Nel ’42?
No … il ’43! Sono rimasto poco, solo due o tre mesi mi sembra.
E’ arrivato d’estate?
D’estate, d’estate.
C’era già stato il 25 luglio?
Penso di sì, però non me lo ricordo bene, non me lo ricordo bene questo fatto; non me lo ricordo perché penso che sia successo o mentre viaggiavo o che ero già là. Quindi là la questione non ci riguardava molto. Perché noi eravamo militari e la vita ha continuato come era prima, e nessuno ha detto niente. Nessuno, nessuno ha preso delle posizioni, e poi era un ufficio più che altro, quindi ognuno si faceva i fatti propri, cercava di fare il meno che era possibile e tirare sera, e poi alla sera andare magari fuori a divertirsi un po’ se poteva.
Mi dice qualcosa di Atene che è un po’ un “topos” della guerra italiana?
Atene è una bella città … è una gran bella
città. Ad Atene si trova di tutto, basta avere i soldi, ma io di soldi
non ne avevo molti e vede dopo la guerra, dopo l’otto settembre… Il giorno nove
c’ha chiamato l’Intendenza e c’hanno dato tre sterline oro e novantamila o centomila
dracme per le spese. E allora siamo andati fuori con centomila dracme … son
più di centomila dracme, erano dei soldi allora! Perché il cambio
era uno a nove, o uno a dodici, però il cambio effettivo era uno a duecentotrenta,
uno a duecentoquaranta, era una cosa! E allora ho preso, sono andato in un gruppo
e ho preso questo anello. L’ho infilato dentro in … qui; un altro mio amico
ha preso una macchina … bella macchina Leica, appena è arrivata la prima,
… alla prima, tracchete gliel’han subito presa e gliel’hanno fregata subito.
E io c’ho detto: “e insomma, io l’ho messo qui”, ha palpato un bel po’ forse
se n’è accorto chi lo sa, e insomma è passata e l’ho portato fino
a casa. Un affare da poco una stupidaggine proprio, e le tre sterline che abbiamo
infilato nelle bande, là in fondo, che abbiamo palpato tanto, eccetera
eccetera. Però abbiamo avuto la malaugurata idea un giorno di toglierle,
insomma le abbiamo perse. Non lo so dove sono andate a finire … o che ce le
hanno fregate e sono andate perse. Dopo la liberazione, eh! E c’han buttato
su un camion, un negro … un nero: “Fate presto, fate presto …”; “sì,
sì, sì”. Ma un bel momentino è partito e c’era lo zaino
su un camion e noi siamo rimasti a piedi. Chi lo va a trovare più, io
non lo so e molto probabilmente erano lì e le tre sterline erano andate
… le ho perse. Dopo sei o sette anni mi telefona un certo generale da Napoli
che cercava di recuperare le sterline che c’avevano dato ad Atene. “A vem ben!”
Ma questo qui, ma non c’ha altro da fare che recuperare delle stupidaggini del
genere? E allora c’ho scritto, c’ho scritto malamente e gli ho detto così
che io non ce le avevo più. Se volevo gliele rifacevo, ma non ce le avevo
più perché me le avevano fregate. Cioè le avevo perse,
non fregate, perse. Sa, tutto quello che abbiamo fatto, tutte le riviste che
abbiam passato. Quando siam partiti da Benjaminowo c’hanno preso tutto e han
buttato tutto in un cantone, e anche lo zaino, perché la cassetta l’ho
buttata subito a Atene. Abbiamo preso dall’Intendenza uno zaino, c’abbiamo messo
il nostro nome scritto in nero e siam partiti con gli zaini, perché con
lo zaino si fa meglio, si carica tutto quello che vuoi, ma portarsi a dietro
quelle cassette da ufficiale che c’erano una volta di legno lunghe un metro
e mezzo quadrate così, è una cosa impossibile tirarsi dietro,
e c’hanno dato quella roba lì. Ho detto: “vah, fate meglio eccetera eccetera”.
Va beh, preso anche quello, buttati dentro in un carro merci chiuso e non c’hanno
più aperto fino a quando siamo arrivati a Bremervörde, non lo so,
saremo rimasti dentro una settimana, dicevano così che ci aprivano ogni
ventiquattro ore per fare i nostri bisogni, non c’hanno mai aperto finché
cosa succedeva? C’era un capitano che diceva: “Ragazzi”, è un napoletano:
“Ragazzi, non la fate! Fra un paio d’ore ci aprono, non la fate!” Allora, liquido,
c’avevamo gli scatolini e attraverso i finestrini che erano tutti così…
pian pianino, pian pianino, si riusciva a buttarla fuori. Ma quell’altra no!
Quando prendi gli spintoni succedeva l’ira di Dio perché veniva tutta
in mezzo. La cacca che andava a girare per la spinta del bidone, del mastello;
c’era un mastello alto così, viene fuori! Quando è pieno viene
fuori! C’è poco da fare. Ecco. E così …
A Stettino arriviamo lì, hanno aggiustato lì, ci fermano una notte.
Dopo mezzanotte arrivano i bombardamenti, noi che saltavamo sui binari e dicevamo:
“Se c’arriva qualcosa addosso? Se c’arriva qualcosa addosso si muore. Cosa ci
vuoi fare!”. E siamo stati tutta la notte. Il bombardamento dopo un paio d’ore
è finito, poi il mattino dopo, il mattino dopo … intanto che hanno aggiustato
quello che c’era da aggiustare … i binari, e poi riparte di nuovo da Stettino
e c’hanno portato a [Bernavò], ma c’abbiamo impiegato dalla Polonia quasi
sei o sette giorni di sicuro. E lì a Stettino un bombardamento e noi
fermi lì in mezzo alla stazione, tutta la tradotta. Una decina, quindici
o venti , non so quanti fossero i carri merci con dentro ad ogni carro merce
quanti? Quaranta, quarantacinque persone.
Eravate tutti ufficiali?
Tutti ufficiali che venivamo tutti da Benjaminowo, e da Benjaminowo siamo arrivati a Bremervörde, lì a piedi, siamo arrivati a Sandbostel. Vi dico un fatto che pensavo che fosse più vicino, pensavamo di esserci arrivati prima perché siamo andati lungo una specie di carraia con delle piante a destra e a sinistra, e ho visto con la corriera invece che ci sono quattordici, quindici chilometri. Ho detto: “ma come abbiamo fatto a fare …”. Va bene che se, se sulla strada magari certe curve in più, però saranno stati dieci chilometri lo stesso. Beh, li abbiamo sopportati anche bene, un po’ la spinta dell’uno, un po’ la spinta dell’altro. “Stai attento perché c’è quello lì che ti guarda male, una guardia, quello li che ti guarda male, devi stare attento”, e va beh … “Allora cerca di andare verso il centro”. Quelli in centro: “ah no beh, io posso camminare bene ancora, e allora si può … “. Era così eh! Era l’amicizia con gente che magari non avevi mai conosciuto perché una volta che ti buttano là dentro quelli della tua baracca spariscono, non trovi più nessuno, non trovi! E quindi sei in mezzo a degli sconosciuti! “Ma tu in che baracca eri?” “Ma io ero in quella là, la numero cinque, la numero sei …”. “Ma io ero nella due … o nella uno …”. Era una confusione tremenda, non si trovava più nessuno. Però un consiglio arrivava sempre: “stai attento che quella guardia là di dietro ti sta guardando male”,“ma davvero?”, “sì”. “Allora vieni verso il centro che mandiamo fuori uno di questi qui che cammina meglio, tu che sei più giovane, guarda che c’è un capitano che ha quasi cinquant’anni o sessanta, fallo stare nel centro. Lo prendiamo a braccetto magari, lo aiutiamo”. Sa perché c’era della gente che a quaranta, cinquant’anni c’hanno anche una bella pancia. Va beh che lì gli era calata … ma pesava lo stesso. Molto probabilmente lo spostamento degli organi, il dimagrimento così assoluto e in modo così repentino, comportava delle malattie forse, non lo so, una stanchezza che gli altri non provavano o che uno provava di più. Insomma stavano molto più male quei grassi che erano diventati magri. Ho visto un’unica volta che siamo stati nel bagno lì a Sandbostel quando siamo arrivati, una cosa tremenda: sembravano fette di mortadella rovesciate. Poi c’è stata la questione che lì, ne parla Guareschi nei suoi libri, del bagno fatto senza sapone, veloce perché se non facevi alla svelta a saltar fuori …, e c’era il russo che ti spennellava davanti e di dietro a cui avevano insegnato le due paroline: “apri gambe” e allora “zacchete”! Con un pennello da muratore che intingevano non so … in un affare biancastro e ti spennellava, ti spennellava qui e ti faceva voltare e diceva: “apri culo con mano” e bisognava farlo eh, e quell’altro “sgnacchete” una spennellata! Passo nell’altra stanza in cui senza niente per asciugarsi… un lamento continuo: “ma cosa succede?” “Vedrai cosa ti succede!”. Perché quella robaccia lì, in certe posizioni faceva male, bruciava! Ti bruciava vivo! C’avevo un povero, povero tenente, un cappellano militare, sa noi cercavamo di pulirci eccetera eccetera, di buttar via e lui non si voleva toccare! Un bel momentino crolla giù senza sensi: è svenuto dal dolore. Dicevo: “ma insomma caro mio, ma grattati anche tu, datti da fare! Ma cosa vuoi che mi importi se là ti gratti in certe parti del corpo, non è mica un delitto!”. Ecco e allora sono cose, piccole cose che vengono in mente così. Là, e poi dopo c’era uno che leggeva i numeri perché ogni … venivano scaldati i vestiti, perché sa, venendo dalla Polonia andando in Germania, volevano della gente pulita, senza microbi addosso, senza pidocchi, senza pulci, eccetera eccetera. E chiamavano i numeri, capirai era uno “cal cugnuseva nianca l’italian” [che non conosceva neanche l’italiano]. Ma i numeri se uno si sbaglia, mi sono sbagliato … mi sono sbagliato a leggere e sono andato fuori, dopo ho visto che non era il mio e io faccio per rientrare e c’era tanta neve ed ero nudo. Ho dovuto aspettare il mio numero fuori! Quindi quella sera lì a Bremervörde c’avevo un febbrone! Avevo perso gli amici, quelli che conoscevo in una baracca che non conoscevo nessuno, con la febbre, ma un febbrone da tremare! E dicevo: “qui ce la rimetto!” Poi è passato, poi ai giovani passa tutto, piano piano passa tutto.
Vorrei capire qualcosa in più sull’otto settembre. Quello che è stato per voi e anche quello che è stato intorno a lei.
Prima le posso dire che cosa è stato per me l’otto settembre.
L’otto settembre al pomeriggio eravamo negli uffici e abbiamo sentito delle
voci. Piantoni che giravano, che correvano, qualcheduno ha detto: “guardi che
i greci m’hanno detto che l’Italia è uscita dalla guerra”. Ho detto:
“Ma va…” Capirai … noi c’abbiamo … e siamo andati alla mensa. La mensa dove
andavo io, giù all’Intendenza, venivano tutti gli ufficiali dell’Intendenza
e quelli dello Stato Maggiore dell’armata. Quindi c’erano i colonnelli di Stato
Maggiore, c’erano un generale o due aiutanti del generale comandante dell’ Undicesima
Armata, loro avevano un palchetto più piano eccetera eccetera.
A un bel momento arrivano le otto. Prima delle otto, il generale si alza e ci
dice: “guardate che sembra che noi siamo usciti dalla guerra. Adesso sentiamo
il giornale radio delle otto, perché è stato detto che verrà
diffusa la notizia”. E lì sappiamo quello che è successo. Quell’ordine
balordo che è stato dato, che non si sapeva più se stare da una
parte o dall’altra. Questo non riguardava mica me, sottotenente! Riguardavano
poi loro, erano loro che dovevano decidere qualche cosa. Però ci siamo
lasciati così, tutti siamo andati a dormire nei nostri alberghi, non
è cambiato niente. Il giorno dopo c’hanno chiamato appunto per darci
quelle piccole cose che c’hanno dato, per sfoltire l’Intendenza o forse per
non consegnare ai tedeschi le sterline. Che le sterline da dove venivano? Dicevano
così che erano sterline buttate dagli inglesi ai partigiani greci e che
erano state recuperate dalle nostre truppe. Recuperate dalle truppe e portate
all’Intendenza e messi in una gran cassaforte. Quindi, quelle sterline lì
di chi erano? Boh! Ed è finita lì. E’ finita lì. Han detto:
“guardate, trovatevi domani all’Intendenza che partiamo insieme, andate al magazzino
dell’Undicesimo, che è molto lì vicino, prendetevi uno zaino perché
così potete portare meglio la vostra roba, buttate tutto quello che non
vi serve”. Ma c’avevamo tanto poco, perché l’unica cosa di pesante che
c’avevamo era il pastrano, che non usavamo sicuramente là; sa quei pastrani
di una volta lunghi fino a qui e una o due divise: una di alta uniforme e una
in grigioverde, tutto lì. Quindi non era … e tre o quattro camicie, magari
con le maniche corte, perché, perché là andavamo così.
Quindi poi un’altra volta non so, non era successo niente di straordinario.
Perché lì in centro, proprio non succedeva proprio niente. Se
succedeva qualcosa, succedeva in periferia caso mai, ma in centro non succedeva
mica niente. Infatti io mi ricordo quel giorno lì, sono andato anche
… pur essendo… in chiesa. La chiesa Metropolita di Atene, che è la chiesa
ortodossa greca, che sa è un po’ diversa dalla nostra, però, grosso
modo gli stessi riti, pieni di icone, avanti e indietro, molto bella, una gran
bella chiesa sa? Sono andato dentro e siccome sono di estrazione religiosa,
come del resto anche prima alla domenica, quando loro venivano fuori e che c’era
la chiesa chiusa vado a pregare in chiesa. Per me pregare in quella chiesa là
o in questa qui è la stessa cosa. Insomma soltanto un rispetto verso
chi ci sta di sopra, verso Dio.
Mi sono trovato su questo vagone, abbiamo cercato di non andare nei vagoni di
seconda, dove andavano i generali e gli ufficiali superiori, perché sapevamo
che non si poteva stare con loro, e noi ci siamo trovati in sette, in otto e
in dieci e siamo andati in uno di quei vagoni di terza classe che c’erano una
volta di legno. Avevamo i teli da tenda sopra, legati i teli da tenda e quindi
là sopra, sui bagagliai, si poteva dormire distesi. Ritrovarsi … quelli
in seconda dormono meno bene di noi, e così abbiamo fatto quasi un mese
là sopra su questi teli. Guardi in un vagone che poteva contenere non
so quanti, se quaranta o cinquanta persone, sessanta in quei vagoni lì,
ci saremmo stati in dieci dentro, o quindici o dodici. Quindi facevamo i nostri
comodi. Soltanto che non c’era niente da … dopo due ore … dopo due giorni siamo
rimasti senza viveri, e per gli altri giorni ci siamo arrangiati. Ma sa in Ungheria,
in Ungheria mi han venduto….cedevano quelle forme di pane che c’era sopra ancora
delle pule di grano. Cotti malamente, però insomma era pane e lo si mangiava
volentieri. Era solo pane eh…
In questo lungo girovagare di un mese ha visto qualche segnale della guerra?
No. A una certa volta … un certo senso … salta fuori uno e
ci dice: “guardate che siamo fermi in una stazioncina e siamo …” Abbiamo guardato
e siamo a circa due chilometri dal confine turco, Turchia europea. “Se volete
possiamo scappare perché tanto qui siamo da soli”. C’è dietro
un vagone di sette o otto tedeschi di scorta, ma stavano bene richiusi dentro
e non si facevano mai vedere. E poi han detto, salta fuori uno e dice: “guarda
che è successo anche nell’altra guerra …”, che era molto vicina perché
era successo poco più di vent’anni prima. “E chi è andato a finire
in Turchia si è trovato molto peggio di quelli che sono andati a finire
in Moldavia”, tanto per dirne una. “Allora va beh, stiamo pure alla larga, siamo
arrivati a Costanza sul Mar Nero”.
Ho detto: “ma qui dove andiamo poi a finire? Chissà dove andiamo poi
a finire!” E han detto: “ma adesso facciamo delle linee secondarie per non intralciare
i loro affari, eccetera, eccetera”. Da Costanza torna indietro e siam tornati
in Bulgaria, e in Bulgaria siamo andati a finire ancora in… non in Serbia, in
Macedonia. Siamo passati per Skopje che mi ricordavo bene di esserci passato
anche quando sono andato giù. Ma da Skopje a Salonicco è una volata!
Insomma saranno cento chilometri, centocinquanta, ma lì ci siamo arrivati
dopo quindici giorni!
Eravate sempre il vostro gruppo?
Sempre, sempre lo stesso, sempre gli stessi. A un certo punto arrivammo in una stazioncina sperduta in cui c’era il binario principale e uno lungo un chilometro dove si fermavano i treni. Si fermava lì, staccavano la vaporiera e non si sapeva più niente. E che dicevano: “non andate tanto lontano perché se arriva, dopo rimanete a piedi!” Diceva, noi insomma le cose si fa … se uno rimane a piedi, perché la cosa principale era questa: stare nel gruppo grosso. Perché se ti isoli, sei fritto. Insomma non sai più a chi rivolgerti, non capisci le lingue.
Avevate ancora l’armamento individuale?
Sì, avevo ancora la pistola, lì. Poi dopo ce l’han tolta quando dalla Serbia siamo entrati in Ungheria. Ma questo quasi in ultimo, perché siamo arrivati tardi in Ungheria. Perché in Ungheria dopo, mi ricordo che una sera, tutta una notte abbiamo costeggiato il lago Balaton ed è durato dalla sera fino al mattino, ma erano treni che sembrava che andassero forte, ma facevano sì e no i trenta all’ora, trentacinque. C’era una vaporiera davanti e una trentina di vagoni di dietro, ma cosa vuoi che … niente. Andavano piano, poi si fermavano, poi davano la precedenza a tutti gli altri e noi arrivavamo quando arrivavamo, tanto non c’avevamo mica fretta.
Mi dica qualcosa di più di Benjaminowo.
Benjaminowo? Non l’ho neanche visto il paese io. Mi ricordo
una stazioncina ferma là in mezzo a delle dune, lì e basta. Mi
ricordo che siamo, che c’hanno buttato su ‘sto carro bestiame e dopo un giorno
ci hanno aperto ed eravamo ancora lì al mattino e non ce ne eravamo neanche
accorti! Siamo usciti e c’era quasi mezzo metro di neve, e ho detto: “ma stanotte
qui ha nevicato”. “Ma sì, ma io l’ho visto, ma no, ma sai per non creare
…” E nessuno aveva detto che aveva nevicato tutta notte
mezzo metro di neve e non ce ne siamo accorti! Ed eravamo dentro nel carro bestiame.
E capirà lei se uno ha bisogno di fare i propri bisogni, andarlo a fare
in mezzo metro di neve, col freddo che c’era, perché poi a Benjaminowo
non era mai nevicato tutto inverno, l’unica neve che ho visto erano quelle stelline
lì, che giravano, giravano su e giù, e andavano a finire contro
… contro le baracche, e in qualche baracca messa sotto vento forse si era ammucchiato,
non so, due dita di gelo. Perché poi gelavano, s’ammucchiavano e diventano
un corpo unico dopo, quindi di neve a Benjaminowo non ne ho mica vista io, solo
freddo, solo freddo.
A Benjaminowo avete avuto le richieste di adesione?
Sì.
Solo lì avete avuto richieste di adesione?
Solo lì, solo lì. L’ultima volta è stato … la prima e ultima volta. Prima e ultima volta, due volte mi sembra che sian venuti, ma comunque …. Non quando eravamo in Germania, dopo era già tardi, siamo quasi in aprile del ‘44. Era già finita la storia.
C’erano solo italiani a Benjaminowo?
Per quanto mi risulta sì.
E le guardie erano della Wehrmacht?
Le guardie erano … era Wehrmacht, coadiuvati dai …quelli che noi chiamavamo i russi, che avevano aderito, ma non erano altro che gente delle repubbliche russe asiatiche. Non i cosacchi, come li chiamano quelli che stanno vicino alla … i mongoli … quella gente lì. Era quella gente lì ecco. Lì ho imparato una cosa: qualunque cosa che ti capiti di brutto, se c’hai un orologio lo puoi sempre vendere! Infatti un orologino che mi aveva regalato forse mio papà, da pochi soldi, l’abbiamo sacrificato per dieci chili di pane. Soltanto che loro erano di là dal reticolato, hanno voluto prima l’orologio e poi c’hanno buttato tre o quattro chili di quelle formette lì e poi han detto: “adesso basta perché ne abbiamo dato anche troppo”. Ha guardato indietro e fa: “vigliacca! Passami …” in dialetto magari, non so quale dialetto era. E poi han detto: “beh, va là ce ne han dato anche troppo, che potevano anche non darci niente”. Ecco quelli erano gli affari che si facevano con quella gente lì, non so se erano mongoli o di che razza erano, so che erano asiatici ecco.
Cosa facevate a Benjaminowo?
Niente.
Come passavate la giornata?
Niente, dentro in baracca e basta. Non si andava neanche fuori perché c’era troppo freddo. Una notte c’è stato un freddo tremendo e, dentro in baracca, nelle baracche c’erano delle botti scoperte in cui c’era dentro l’acqua, in caso di incendio si poteva prendere l’acqua, quell’acqua era diventata un cubo, un cilindro di ghiaccio. Quindi immagini il freddo che ci poteva essere. Quindi, il freddo dentro, il freddo addosso, dover andare al gabinetto dieci, cinque, sei, sette volte per notte, significa un disagio enorme. Non solo, ma la baracchetta lunga una cinquantina di metri, con un fosso nel mezzo e con le assi per il traverso, e c’era da fare una salitella di quattro o cinque metri, lunga dieci o quindici metri, non si poteva fare perché si scivolava. E allora uno cosa faceva? La faceva dov’era, dove doveva arrivare. Al mattino i tedeschi han visto che c’erano i mucchietti gialli, la roba che era gelata facendo, gelava. E allora c’hanno detto che eravamo degli sporcaccioni, che eravamo qui e che eravamo là. Il Colonnello Brignole che era il comandante del campo, visto la storta, ha fatto una sfuriata contro i tedeschi dicendo così che non era colpa nostra, era colpa loro, perché se loro ci mettevano le baracche con un po’ di riscaldamento e dove si andava al gabinetto ci facevano gli scalini per andar su, la gente non scivolava giù e non rischiava di rompersi le gambe, e l’urina l’andavano a portare dove doveva essere portata, ma se uno la faceva lì è perché non poteva più andare avanti, perché c’erano trentadue gradi sotto zero! E come si fa, c’hanno offeso eccetera eccetera, boh! Tanto possono dire quello che vogliono!
Era riuscito a scrivere a casa in questo periodo?
In questo periodo sì, ci davano una cartolina ogni quindici giorni mi sembra, e la cartolina si scriveva solo da una parte e dall’altra parte c’era scritto, c’era il ritorno che serviva da applicare ai pacchi che le famiglie potevano mandare. Però il mio primo pacco che ho ricevuto lì è stato un vero disastro, un disastro. E’ arrivato solo il nome e l’assicella su cui c’era il nome e nient’altro. Perché? Perché si vede che a casa per cercare di metterci dentro un po’ più di roba hanno fatto una cassetta un po’ più debole e, sballottato da una parte e dall’altra sul treno è scoppiato tutto, è partito tutto. E allora nella lettera dopo ho scritto che, insomma, stessero un pochino più attenti, che invece di farne quattro chili e mezzo di roba ne facessero quattro, e un chilo per la cassetta. Beh lo sa che un capitano tedesco mi ha chiamato nel suo ufficio, e quasi, quasi mi mette agli arresti? Perché diceva, così, che io avevo scritto delle cose riguardanti il campo a casa e ho detto: “ma guardi che non ho scritto niente!” E questo capitano tedesco, era un caro amico dei sud tiroler, era un sud tirolese che forse aveva aderito all’Anschluss fatto nel trentotto, ed era a tutti gli effetti capitano tedesco. Però parlava un po’ italiano e quindi m’ha fatto tutta ‘sta ramanzina, e poi m’è arrivato coi ceffoni tra l’altro. Non ho mica detto niente, so il nome, ho saputo il nome, potevo andare a Bolzano, Merano eccetera, per trovarlo, per rendergli la pariglia, ma niente, a me quello là non me ne frega un accidente. Lui ha fatto quello che ha fatto e io ho fatto quello che ho fatto senza rancore con nessuno.
Quando lasciate Benjaminowo?
Verso metà marzo.
Anche perché la guerra si sta avvicinando alla zona…
Appunto, sfollavano dalla zona tutti i campi perché stavano venendo avanti i russi, oppure c’era stato un primo sbandamento delle truppe tedesche. Prima sul Don quando c’eravamo anche noi e poi dopo, la seconda linea che avevano fatto era stata sfondata anche questa e ne avevano fatta una che era ancora però in territorio russo, la Russia bianca, non da Minsk, e giù, giù forse ancora fino a Kiev, non lo so. Non sapevamo certamente a che punto erano le truppe di un esercito ……
Avevate un’idea di come stava andando la guerra? Qualche informazione?
Nel campo, non lì, non lì, ma nel campo di Bremervörde c’era una radio che veniva smontata e rimontata. Uno si teneva una valvola, uno qualche cosa, uno qualcos’altro. La smontavano e sparivano in cinque o sei baracche. Poi quando decidevano certe sere di sentirla riunivano i pezzi, chi era capace di farla, e sentivano Radio Londra e lì si sentivano le notizie. Per esempio lo sbarco del sei giugno, mi sembra del giugno, l’abbiamo saputo che erano le due o le tre del pomeriggio. E’ stato un momento di euforia generale, di gioia: “arrivano, arrivano!” Però è stata lunga aspettare altri sei mesi eh! Sei mesi? Sei mesi, quasi dodici mesi perché sono arrivati in aprile, quindi era in giugno, quindi dieci mesi sono lunghi. Poi c’è stato l’interludio del dicembre, e l’abbiamo saputo quando i tedeschi hanno attaccato sulle Ardenne e che gli americani sono stati respinti per quasi cento chilometri: lì lo scoramento più totale. Ho detto: “ma sai per recuperare cento chilometri cosa ci vogliono?” Poi dopo, in primavera hanno dilagato.
A Benjaminowo si sono sviluppate delle malattie?
No, no si vede che essendo venute a mancare il tramite, cioè
il pidocchio infetto, se c’era … beh ancora no … era tanto presto che nessuno
di noi poteva avere pidocchi addosso. C’è stato un fatto di pidocchiamento,
a Sandbostel che alla mattina non suona la tromba dei tedeschi e ho detto: “cosa
è successo? Cosa è successo?” E c’hanno chiuso dentro in…in quarantena.
E allora son saltati fuori che c’erano i pidocchi. Io me lo son visto un paio
di qui, non avevo mai avuto un pidocchio addosso, mai avuto un pidocchio e chiedevo,
c’erano tanti medici reggimentali senza essere…. “Ma scusa, tutti quanti ho
visto che c’hanno i pidocchi”, nessuno lo diceva, ma ce li avevano. “ma perché
io non ce ne ho?” E m’han detto: “è’ il sangue”.
O si vede che il mio sangue non piace ai pidocchi! Non lo so. Io non me ne ho
mai visto uno addosso, né sottopelle, né … mai! Ne ho visti quel
mattino lì perché tutti, tutti … pulivano, cercavano di togliersi
di torno eccetera eccetera e io mi sono trovato un giorno lì con due
che camminavano lì e ho detto: “andate pure, io non lo so”. Addosso non
ne ho mai avuti, mi lavavo e mi pulivo come gli altri, lo stesso modo. E’ questione
di sangue molto probabilmente. O di puzza di sangue, non so. Si vede che la
puzza del mio sangue o della mia pelle ai pidocchi non piace. Io non lo so spiegare
diversamente, ecco.
Dopo Benjaminowo è andato a Bremervörde?
Sì.
Quanto è stato a Bremervörde? Un paio di mesi?
No! Bremervörde non …… è una stazione!
Era solo un passaggio?
E’ una stazione!
Quindi la destinazione successiva è direttamente Sandbostel?
Sandbostel direttamente, subito lo stesso giorno.
Durante la lunga camminata a cui ha accennato cosa succedeva a chi si fermava?
Succedeva che doveva camminare perché si trovava a quattro dita di baionetta sul sedere, c’era poco da…
Come era in generale la disciplina?
La disciplina era: loro ti mandavano avanti, loro ti mandavano avanti, non potevano permettersi a della gente di fermarsi perché molto probabilmente non avevano delle altre guardie che facevano il turno successivo per portarle avanti. Quindi loro dovevano arrivare tutti in un momento e, siccome anche loro forse avevano dei tempi stabiliti dalla stazione e d’arrivar là perché dovevamo fare il bagno, perché dovevamo andare nelle baracche. Tutto questo doveva essere fatto di giorno, non potevano farlo di notte. Quindi sono arrivati con dei tempi stabiliti e molto probabilmente la marcia è stata fatta in funzione del tempo stabilito da loro, quindi non potevano permettersi il lusso di lasciare indietro nessuno. E chi rimaneva indietro si prendeva una baionettata e andava avanti. Soltanto che gli altri, se c’erano degli altri che potevano aiutarlo, lo prendevano a braccetto e lo portavano avanti. E’ capitato anche a me con un altro, c’era uno che non ce la faceva insomma. Guardi io non me ne sono accorto della lunghezza del tragitto anche perché: prendi da una parte, stai attento di qua, stai attento di là, il tempo passa e i chilometri si fanno che uno non se ne accorge anche se li senti nelle gambe, no, non se ne accorge, lo senti dopo. Che dopo la sera, con un febbrone addosso che quasi quasi ci rimetto la pelle! Lì è successo perché son dovuto andar fuori a prendere la divisa che c’aveva appiccata fuori, non era mica il mio numero; ho dovuto aspettare dieci minuti con la neve alta così attorno. Erano cose che succedevano!
Arrivati a Sandbostel all’inizio della primavera?
Inizio primavera quasi, secondo me. C’era la neve ancora.
A Sandbostel arriva con il suo gruppo?
Si perché da Benjaminowo non siam partiti tutti insieme,
siamo partiti … le prime baracche perché io ero nella baracca numero
uno o due mi sembra, ed era in fondo al campo quasi al confine con la recinzione
e quindi, non so avranno preso su quattro o cinque baracche, avranno preso su
trecento o quattrocento persone. Non lo so come ……
Non si sa niente lì, si va in gruppo e si segue e si va. Ma uno non può
rendersene conto se in un vagone sei in trenta o sei in quaranta. Chi li conta?
So che non ci stavamo coricati per terra quindi … facevamo i turni.
A Sandbostel trovate altri prigionieri?
Siamo stati i primi italiani là, siamo stati i primi. Secondo me io sono stato nella prima tradotta che è arrivata di italiani a Sandbostel.
C’erano prigionieri di altri paesi?
Gli italiani erano in un quarto del campi, dalla parte destra, divisi da un gran stradone dove passavano i tedeschi e i prigionieri russi che portavano fuori … facevano i “volga volga”, coi … Guareschi ne ha parlato bene, e tanto anche, c’erano dieci o dodici soldati russi attaccati che portavano fuori il liquame. I francesi, se noi buttavamo di là della roba che valeva, orologi o anelli, facendo… se uno era capace di farci fare trenta metri, perché tanta era la distanza, potevano mandarci anche qualche cosa da mangiare, perché loro ce ne avevano, perché la Croce Rossa a loro dava un pacco da quindici chili, da dieci chili di vestiario al mese e due pacchi da cinque chili mi sembra di vettovaglie. Quindi ce ne avevano da buttare. E allora se qualcheduno aveva qualche cosa da … se riuscivo a buttar di là e se quell’altro riusciva a buttarlo indietro, ti poteva arrivare anche non so, un po’ di pane fresco di quello, di quello… come si chiama sul mantovano … come lo chiamano…il pane, il pane abbrustolito, non lo so, il pane biscotto, il pane biscotto. E ne arrivavano ma io non c’avevo più niente da mandare, il mio orologino l’avevo dato a Benjaminowo e quindi…
Avete ricevuto pacchi a Sandbostel?
Qualcheduno sì, dopo ne ho ricevuto qualcheduno: si
faceva la solita trafila e poi … poi con il mio amico Remo, lui era figlio,
a Reggio di un infermiere qualificato e che lavorava nell’ospedale… non nell’ospedale,
nel manicomio criminale di Reggio. Sa che oggi c’è un criminale qua come
ce n’è uno in bassa Italia vicino a Napoli o non so a Nola, a Caserta
o a Nola ce n’è uno anche lì, e lì lui lavorava lì
dentro e si vede che riusciva ad avere del riso. E un giorno a lui sono arrivati
quattro chili di riso… tutto ‘sto riso! E noi lo mangiavamo assieme. A me arrivava
del pane … cotto al forno che poteva resistere e insomma pane e riso si mangiava.
Il riso sa come lo facevamo? Una volta ho fatto ridere tutti quanti: mettevamo
il riso nella porzione giusta (finisco di dirle come si coceva il riso in campo
di concentramento) appunto con l’acqua fredda, acqua che … nel campo di concentramento
non c’è acqua è … è solo acqua che deve essere bollita
e bollita perché è acqua inquinatissima. Ci sono i pozzi neri
che sono a livello di terra, e con niente e quindi tutto il liquame va a finire,
va a finire… non si poteva bere. Davano loro una … di acqua al giorno, un litro
e mezzo.
Una scodella?
Non una scodella.
Una gavetta?
No! Non son le gavette, sa il coso … rotondo … la fiasca da fondo del militare, ma guarda che non mi ricordo più.
Una borraccia?
Una borraccia ecco sì, una borraccia d’acqua che dicevano che era tè, invece chissà cosa c’era dentro, mah! Quando si alzava il bollore, con una scatolina sotto con dentro i pezzettini di legna che alzava il bollore, si tirava via la gavetta, mezza, un terzo … la facevamo, l’arrotolavamo dentro in una coperta e la si teneva lì. Quando, dopo un quarto d’ora o venti minuti che era diventata fresca, la si tirava via e lei che cosa trovava? Un impasto biancastro di riso, come se fosse una torta. Ecco e lì si tagliava come una fetta col coltello! Si tagliava col cucchiaio e allora, uno a te e uno a me … uno a te e uno a me, ce lo mangiavamo, un quarto di gavetta. Quindi non so un quattro o cinque cucchiai, non c’avevamo quei cucchiai lì di … e diventava un bel pastone bianco, quasi freddo perché non so come il riso, diventa, diventa tutto un coso, un affare, un affare uguale come se fosse una torta, un budino, qualcosa del genere insomma, ecco. Sale niente. Ecco dirò un’altra cosa che io però non ho sofferto… siamo stati sei mesi in cui non mettevano il sale nella minestra, non so se qualcheduno ve l’ha ricordato. Sale a Benjaminowo, a Sandbostel noi siamo stati quasi sei mesi senza sale nella minestra. Perché dicevano così che non ne avevano, e non ne avevano neanche per loro. Quindi quella specie di sbobba lì, non salata, era una cosa che qualcheduno non riusciva a digerire e a mandar giù! Neanche a mandarla giù! “Ma tu come fai?” E dicevo: “Chiudo il naso e me la mangio! Cosa devo farci!” Non sentivo la mancanza di sale. Infatti a casa mia quando c’è un grammo di sale in più, lo sento e divento … divento quasi matto, ma se c’è in meno non me ne accorgo neanche. Il sale … ma han cominciato a dire che se non si mangia sale ti viene questa malattia, se non prendi il sale quella roba là, e allora tutte le malattie più grosse del mondo tutti ce le avevano. E poi praticamente non c’aveva niente nessuno perché se non sono morti! Quindi vuol dire che si può vivere anche senza sale, non per degli anni, ma per sei mesi si può anche vivere senza sale.
A Sandbostel cosa facevate?
A Sandbostel facevamo … alla sera dopo la conta, qualche volta, quando c’era bel tempo, tra una baracca e il fossato si faceva qualche volta avanti e indietro, un pochino insomma, un po’ di più alla domenica. Qualche domenica, io a raccontarlo non vorrei che mi venissero i lucciconi, però, nel mezzo del centro c’era un buco che lo chiamavano… un fossato e un buco in cui una volta prima, anni prima, c’era dentro del carbone. Questo buco era quadrato, largo non so venti metri per trenta e profondo quattro metri, e lì dentro alla domenica, qualcheduno che sapeva suonare la fisarmonica andava là in fondo, tutti gli altri che lo volevano fare stavano attorno, e lì si intonava il canto dei lombardi: il “Va Pensiero”, così.
Voi come ufficiali non avete avuto richieste di lavoro?
Sì, no, no, c’è stata una cosa: se uno voleva andare ci andava per conto proprio e loro accettavano, però ti mandavano in agricoltura. Siamo stati anche stupidi a non andarci a dire la verità.
Qualcuno c’è andato?
Qualcuno c’è andato poi ultimamente, dopo ci siamo stati anche noi, io ci sono stato!
Questo non me l’ha detto.
Ma dopo la liberazione. Dopo la liberazione infatti, quando… come si chiama quel giornalista lì, che c’era con noi del Gazzettino di Venezia… no non mi ricordo più il nome…il cognome… il presidente del “Club dei 23” c’ha detto, quando siam venuti via da Sandbostel che siamo tornati indietro, c’han detto se gli facevo il favore di fermarmi in un certo paese in cui ero stato dopo. E lì, l’autista è stato gentile, si è fermato quasi, e mi ha detto: “riconosce qualche cosa?”. Ho detto: “Riconosco il paese, ma però non la casa dov’ero”, perché per andare a Brema ci siamo fermati. Non ce la facevamo più e abbiamo combinato con un contadino che noi c’avremmo tolto… Lì c’erano le cave di … come si chiamano, le cave… di torba. Se avessimo tolto la torba lui ci dava da mangiare, c’aveva un po’ d’ingrasso! C’aveva dell’ingrasso… poi siamo rimasti una quindicina di giorni e poi abbiamo preso i nostri … tante grazie; loro c’hanno ringraziato perché li abbiamo aiutati e noi li abbiamo ringraziati perché c’hanno dato da mangiare. Brava gente era. Tra l’altro non era neanche… era un povero affittuario con due ragazzi morti in Russia, con due ragazze giovani, suo nonno, un vecchio… Lugaresi, sì, Lugaresi. Forse non avete mai sentito parlare di Lugaresi. E noi ci ha fatto il piacere di fermarci, fermarci, diciamo andati piano, ecco, ma io l’ho riconosciuto il paese, anche se ci sono stato molto poco, e così e poi dopo …tanti saluti e siamo andati e abbiamo ripreso il cammino. E invece di fare cinquanta chilometri, o quarantacinque, cinquanta chilometri li abbiamo fatti in due tappe insomma, ecco. Ma lì era un po’ fuori mano anche perché abbiamo scelto di fare delle strade secondarie per paura di incontrare delle pattuglie inglesi, perché se loro ci prendevano non facevano altro che prenderti e riportarti indietro in campo. E noi una volta usciti non ci volevamo più stare là dentro. Noi siamo usciti sapendo di uscire abbiamo studiato un po’ come… come si comportavano le loro guardie, perché anche loro ci mettevano così. Ma tanto noi siamo partiti alla mattina tanto presto che loro erano ancora a letto. E abbiamo preso la strada più breve: prima siamo usciti poi ci siamo buttati per la campagna e quindi… e quindi siamo arrivati, a Elsdorf, un paese vicino a lì, a Elsdorf, sì… Elsdorf si chiama. E ci siamo fermati qualche giorno. Noi abbiamo dato qualche cosa e loro c’hanno dato qualche cosa, abbiamo fatto un commercio. Ho detto: “guardi che qui non lavoriamo mica più per il grande Reich! Qui lavoriamo per la nostra cassetta! Il grande Reich ormai è finito! Lavoro per me e basta, quindi se io lavoro lui mi dà… lui mi paga e siamo a posto!”. Mi paga, mi paga con il mangiare, naturalmente. Quindi io ho mangiato patate. E sono abituati molto bene lì perché loro, anche lì mangiano cinque volte al giorno, fanno il cafètrink al mattino alle 6, poi c’hanno il frühstück, che è alle nove, che è sostanziosa, una colazione sostanziosa; poi mangiano a mezzogiorno che è una roba… che è lardo, lardo cotto con delle patate dentro. Alla sera lo stesso lardo cotto, però le patate invece di schiacciarle sono le stesse patate che le facevano un po’ soffriggere. E poi c’avevano quei salamini di maiale, buoni, non so: venendo fuori da un campo di concentramento a me sembrava di mangiare la coppa di San Secondo che una delle cose migliori che c’abbiamo qui nel parmense. Ecco tutto lì.
A Sandbostel avevate un’organizzazione interna? C’era una sorta di mercato interno di oggetti, di scambi…?
In qualunque posto lei vada, il più gramo che ci sia, c’è sempre chi fa commercio nero. Là passavano gente che vendeva una mezza cipolla, che poi a mio costo l’ho presa e ho vomitato persino l’anima, e piccoli commerci, perchè qualcheduno aveva delle dracme, chi ancora possedeva delle lire, chi aveva dei marchi tedeschi, insomma… qualche cosa, qualcheduno aveva… E quindi, ci sono sempre dei furbacchioni! O quelli che… non furbacchioni, ma uno che faceva il mercato! Lui comperava una cosa contro un’altra. Non era un vero baratto, era piuttosto… pretendevano i soldi, ecco. Quindi… chi aveva dei soldi……
Lei ha mai avuto dei lagermark?
No. I lagermark li davano in pagamento dello stipendio. Però dicevano così, che tanta roba che ci davano da mangiare era un supplemento. Io non so, forse il cucchiaino di marmellata rossa, che poi dopo abbiamo regalato alle sfollate di Varsavia che erano arrivate nel nostro campo dopo alcuni mesi. C’è stato il ghetto di Varsavia, quello che è successo… venivano… c’era una bandiera polacca, mi sembra bianca e nera,… bianca e rossa. Insomma un mattino guarda che nel campo vicino, proprio vicino, c’erano uno stuolo di donne con dei bambini. Erano polacche, alcune avevano dei bambini, altre erano incinte, insomma… una miseria e… siccome noi italiani siamo molto buoni, c’hanno dato al quindici del mese un cucchiaio di marmellata, eccetera eccetera, l’abbiamo rinunciato per le signore polacche perché ci avevano i bambini, per darlo ai bambini. C’hanno ringraziato tanto, e… ma non è mica stato un commercio, intendiamoci bene! È stato regalato, ecco.
E la vostra organizzazione interna?
Non c’era nessuna organizzazione. C’era lì a Sandbostel il capitano Brignole, che era un Capitano di Marina; e se voi ricordate è stato uno che ha avuto un contatto con il suo caccia torpediniere contro quattro caccia torpedinieri francesi sulla costa ligure. C’è stato uno scontro a fuoco, in poco tempo della guerra contro la Francia e lì s’è fatto un nome. Poi con il caccia torpediniere San Marco è stato il primo a rientrare in Tobruk riconquistata; insomma s’era fatto un nome, eccetera eccetera. Lì è arrivato, lì è stato naturalmente eletto come nostro rappresentante e comandante del campo nostro e quando contavano tutto quello che succedeva, lui stava di fianco al capitano tedesco e cercava di fare… di stare dalla nostra parte, se era possibile. A proposito di organizzazione: era molto scarsa, non potevano fare molto di più di quello che hanno fatto perché non avevano nessuna autorità. Non avevano proprio nessunissima autorità! Stavano li vicino al capitano Pinkel, quello che comandava il campo tedesco, e se magari qualche maresciallo dava tre giorni di arresto a uno, perché dopo due ore si muoveva sull’attenti, cercava di farglieli togliere. Ma non mi risulta che siano riusciti a togliere mai un giorno di arresto, e gli arresti in cosa consistevano? Di entrare, a metà di quella reazione, in una baracca senza niente e dormire per terra per tre giorni o per cinque, insomma la punizione era quella, la minima era quella. Tre giorni o cinque giorni, quindi anche il capitano Brignole non li poteva togliere, perché avevo sentito delle volte che noi eravamo nella prima baracca, e quindi eravamo sempre vicino per la conta a dove c’erano i marescialli che facevano le somme, dove c’era l’ufficiale tedesco che tirava la somma per vedere se c’erano tutti o se ne mancavano e c’era anche il capitano Brignole. Quindi qualche volta sentivi, allungavi l’orecchio e sentivi quello che dicevano, magari parlavano in tedesco e non capivi un accidente. Più di così non potevamo. Ero nella baracca numero diciotto ed era la prima nell’entrata nel nostro campo. Di fianco lì c’era…dal finestrino nostro, lì dove c’ero io, potevo vedere l’entrata del campo, entrata del campo secondaria, la nostra entrata, ma io non ho mai visto niente di speciale, niente e poi… non è che stessi lì davanti alla finestra. Perché stare davanti alla finestra uno doveva stare in piedi, e uno in piedi si stanca e non ha la forza di starci in piedi più di quel tanto. Se uno cammina un po’ ci sta anche, ma se sta in piedi su due gambe si stanca e non ce la fa più, insomma. Quindi è anche vero che anche Brignole faceva come noi. Non credo che a lui dessero una razione superiore, anche se l’avessero potuto fare, non credo perché… e poi non era una persona che lo faceva per avere un po’ di pane di più degli altri, insomma. Era una brava persona, insomma.
Mi ha detto che la punizione minima era di tre, cinque giorni.
Tre cinque giorni sì…
E la punizione massima?
Non lo so, non lo so perché…
Ma c’è stato qualche episodio?
C’è stato un episodio che una volta uno ha tentato di scappare e l’han preso dopo trenta chilometri. Noi siamo rimasti in fila per dieci ore, e poi dopo è rientrato nel campo, però dopo non ho più saputo dove sia andato a finire. Molto probabilmente sarà andato a finire in un campo che loro ritenevano più duro del nostro, non so lì di Belsen… forse.
Ecco, chi si ammalava finiva……
E chi si ammalava di tisi andava a finire a Belsen. E là la grande malattia era quella lì e… perché purtroppo chi ha avuto dei genitori, dei nonni, dei bisnonni, che nell’ottocento qualcheduno aveva avuto la tisi, lì saltava fuori. Se uno era… non aveva niente, cioè non aveva avuto in famiglia dei malati di tubercolosi, era difficile che se la prendesse, mentre invece chi aveva avuto dei precedenti ci cascava dentro, un’infinità… un’infinità… quasi tutti. Quasi tutti quelli che erano soggetti insomma, ecco. Perché il corpo resiste per cinque mesi, per sei mesi, ma quando deve passare un anno, un anno e mezzo diventa dura! E quindi anche non so i polmoni eccetera eccetera. Quindi quel mio amico ha avuto uno sbocco di sangue da far paura! E a piangere perché diceva così che mi aveva rovinato, perché avevamo mangiato insieme. Poi dopo c’era un altro lì... che diceva: “Ma no! Remo! Non attacca! E’ una malattia che non attacca!”. Non so, cercavo di consolarlo! Ho detto: “Ma cosa te ne intendi dai, vai”; e dopo c’era il gran pensiero: si dice o non si dice? Eravamo ancora tanto ingenui da credere che li avrebbero mandati in un campo in cui li curavano e invece li avevano mandati in un campo dove li facevano morire prima. L’unica sua fortuna è che c’è arrivato alla fine di gennaio forse, e gennaio-aprile sono tre mesi soltanto. Se l’è cavata! Altrimenti ci rimetteva la pelle.
Avevate un servizio medico dentro il campo di Sandbostel?
No, io non mi sembra, non mi sembra… c’erano tutti gli ufficiali medici dei vari reggimenti, ma che cosa potevano fare?
E per quanto riguarda l’assistenza religiosa?
C’erano ancora i cappellani dei vari reggimenti. Quelli che avevano seguito i propri reggimenti ce n’erano. Appunto quello lì che era svenuto era un capitano, era un tenente, e in certe baracche dove c’era uno di questi qui, forse facevano anche messa, forse, non lo so. Nella mia baracca non ho mai visto nessuno. Eravamo centottanta isolati là.
Non potevate comunicare fra le baracche?
Sì! Sì! Ah si poteva! Anzi m’avevan detto una volta che c’era un mio amico che era venuto a scuola con me e che era in una certa baracca, ne ho girate tre o quattro poi, dopo, finalmente l’ho trovato, l’ho trovato! Poi, e poi cosa si fa: “Sì, ciao… beh adesso me ne vado”; ma comunicare! Quello che si comunicava era questo: che ogni tanto, provincia per provincia, dietro una qualche baracca si riunivano per parlare della propria provincia, che cosa facevano… ecco stavano lì per provincia.
Anche perché così se uno aveva una comunicazione, aveva una comunicazione per tutti…
Perché se io avevo non so, della bassa reggiana e trovavo
uno di Reggio, se lui poteva comunicare a casa, quello che potevo fare anch’io,
e se succedeva qualche cosa che lui sapeva, diceva: “guarda che…”, ma non passava
niente attraverso la loro censura. Non passava niente. A meno che uno avesse
già istituito da prima delle parole convenzionali, ciò che nessuno
lo faceva, un codice, ma no, niente. Ma sì perché, sai, si parlava
dei vari paesi nostri in cui eravamo nati, in cui ci riconoscevamo insomma.
So che con Guareschi, per esempio, lui riuniva quelli di Parma, ma io non ci
sono mai andato perché ero di Reggio e non mi consideravo di Parma! Devo
parlare del volo del passero?
Eh, guardi che ero a Benjaminowo. L’ultima baracca, che c’era il reticolato
che faceva l’angolo, e c’erano una cinquantina di metri di scoperto, e c’erano
sempre dei passeri che venivano. Un tizio una volta ha trovato un asse, poi
con una corda e un punteruolo, e c’aveva messo una briciolina di pane, cercava
di fare andare il passero sotto l’asse, tirava, e così me lo prende e
poi lo cucina. E beh, il passero era più furbo di lui. Non solo, ma c’era
un altro che, come il passero s’avvicinava, era capace di fischiare, faceva
un fischio e il passero partiva. Lì han litigato anche, addirittura si
litigava per delle cose del genere: “ma che cosa ti devi mangiare, un passero?”.
E diceva: “Ma cosa c’è dentro in un passero da mangiare?” “Ah c’è
dentro delle vitamine, c’è dentro della carne eccetera eccetera”. “E
dopo con che cosa te lo cucini? Che non c’hai lì niente da cucinare!”;
“Se io lo prendo, me lo cucino e me lo mangio”. Avrà lottato per un mese
là in mezzo con ‘sto passero, ma di passeri io non ne ho visto neanche
una volta. Non è che c’è, sono cose ridicole eh! Perché
si diventa bambini poi, eh… si diventa bambini.
Come erano i rapporti con i tedeschi e con il comandante del campo a Sandbostel?
Ma io non ne ho mai avuti… non ne ho mai avuti. Un comandante del campo non poteva avere dei rapporti con diecimila persone. Poi, l’ultimo dei sottotenenti capirà, se ci considerava…. Per lui eravamo truppa da sbarco, carne da macello.
E’cambiato un po’ l’atteggiamento dei tedeschi durante tutta questa fase di prigionia?
Guardi, una cosa che ho saputo ultimamente nell’ultimo viaggio, m’hanno detto che quel capitano lì, il quale aveva istituito il cosiddetto “volga volga” con i russi, i russi l’han preso e poi l’hanno affogato nel “volga volga”. Io non lo so, l’ho sentito dire là… l’ho sentito dire là. E ho detto: “Beh, insomma, per quanto mi riguarda per me era un tedesco come un altro, però ai russi gliel’ha fatta…”. Perché loro li consideravano di razza inferiore. Infatti i tedeschi chiamavano i russi “kleine”, i cosi, i pidocchi li chiamavano i “kleine russisch” (i piccoli russi); li consideravano dei pidocchi, loro. Adesso che poi questo fosse di tutta la nazione tedesca, non lo… non lo credo proprio, saran stati quelli lì che vivevano nei campi di concentramento perché ad andare anche dalla Wehrmacht a lavorare nei campi di concentramento per tenere degli altri in prigionia, secondo me avevano dovuto fare delle domande speciali e avere anche delle remunerazioni speciali. Perché uno non si prende la briga, se non è obbligato, andare a fare il carceriere delle altre persone, è un soldato e quindi non è un carceriere.
Non erano gente anziana, feriti, reduci?
Dicevano che il Capitano Pinkel era anziano, ma dopo c’erano dei marescialli che sembravano della gente di trentacinque, quarant’anni al massimo! Non erano mica vecchi! Insomma, erano tutti marescialli in genere che contavano eccetera eccetera; e anche perché, forse marescialli, perché erano tutti ufficiali quelli che andavano a contare e forse nella loro mentalità un soldato non poteva andare a contare degli… a mettere in fila e a contare degli ufficiali, anche se prigionieri. Perché loro, a questa distinzione a questa separazione, ci tenevano e al massimo ci mandavano dei marescialli, i marescialli di solito sai, degli ufficiali e dei sottufficiali.
A Sandbostel avete vissuto l’ultimo periodo della guerra?
Sì, l’ultimo periodo della guerra.
Dunque avete visto il crollo della Germania un po’ alla volta?
Un po’ alla volta… e l’abbiamo visto anche quando è stato bombardata, come dicevo prima Amburgo. Ecco, lì l’abbiamo visto che cosa voleva dire. Abbiamo visto magari al mattino stando così in alto a vedere passare duecento apparecchi da una parte, duecento dall’altra. Una mattina li abbiamo contati: quindici, duecento; quindici, duecento. Li moltiplichi, e poi vedi quanti apparecchi sono. Tutte fortezze volanti che andavano verso Berlino. Poi dopo abbiamo saputo, dopo la guerra, che erano stati quelli che avevano raso al suolo Dresda. Sa a Dresda è successo un finimondo. Ci sono arrivati due, quasi tre, quattromila fortezze volanti che hanno scaricato tutto quello che c’avevano da scaricare e l’hanno rasa al suolo! Non so perché a Dresda cosa ci fosse, ma l’hanno rasa al suolo; e passavano di lì tutti i giorni quasi, la notte immancabilmente. Tutte le notti a quest’ora, sull’imbrunire, si accendevano i fari della contraerea tra Amburgo, Brema, Bremerhaven, lì era tutto un’illuminario. Ogni tanto arrivavano gli inglesi perché arrivavano di notte, arrivavano gli aerei inglesi a bombardare. Il bombardamento notturno era prerogativa inglese, e tutta la notte loro, quindici da una parte e trenta dall’altra, li tenevano sempre svegli tutta la notte, ecco. Lì, quando uno voleva, se voleva, andar fuori c’era l’illuminario, c’erano i fuochi artificiali, ecco. Tutta notte, tutta notte, tutte le sacrosante notti. Perché noi lì eravamo a venti, venticinque chilometri da Amburgo, venti, venticinque chilometri da Brema, neanche dieci da Bremerhaven. Eh da Bremerhaven, eh! Non Bremervörde. Bremerhaven che è il porto, un secondo porto di Brema sul Mare del Nord, una grossa cittadina e lì arrivavano, sganciavano e se ne andavano. Questi qui sparavano qualche colpo, qualcheduno lo prendevano, qualcheduno no, e così passavano i giorni. Giocavano a far la guerra. E io dicevo: “Quelli lì giocano a far la guerra…”. Però quelli che c’erano sotto, se si prendevano le bombe in testa la pagavano cara, è naturale.
C’è qualche altro episodio particolare che riguarda gli italiani?
Gli italiani no, gli italiani no! Abbiamo visto gli sfollati che venivano dalla Prussia Orientale. Son passati per dei giorni e dei giorni.
I tedeschi?
I tedeschi. I tedeschi con un camion, non con un camion, con cavalli, carri, biciclette e dicevano che venivano dalla Prussia Orientale, quindi distanti quasi millecinquecento chilometri. Però sa: loro, essendo prussiani, si vede che desideravano rimanere lì in quella zona. Perché il clima della Prussia, il clima della bassa Sassonia è uguale, sono tutti sul Mar Baltico e quindi è quasi uguale e quindi loro si mantenevano su quella direttrice. Non è che andassero giù verso Monaco o verso altre città, si vede che si sentivano più a casa loro, ecco. Sa dalla Prussia Orientale, i tedeschi, è stata completamente abbandonata! E quelli che sono rimasti sono morti, perché i russi quando sono andati avanti non scherzavano, hanno fatto piazza pulita!
Come avviene la vostra liberazione?
Niente, un mattino ce ne accorgiamo che non ci sono più le guardie tedesche.
Non c’era stato nessun preavviso? Nessun segnale? Non ve l’aspettavate?
No, no, ma si sentiva il cannone che s’avvicinava, naturalmente. Però nessuno poteva pensare che erano così vicini. Soltanto che dicevamo: “guarda che qui forse non arrivano neanche, siamo quasi sul Mare del Nord, cosa vuoi che vengano a fare qua?” Nel senso che “qui non c’è niente da poter occupare”. E invece c’era da occupare, perché tutti i boschi che c’erano lì, dopo sono diventati di proprietà della Nato e ci sono rimasti gli americani e gli inglesi fino a ieri o ci sono ancora; ci sono ancora e quindi… Son spariti quelli là e poi il giorno dopo vediamo gli altri: “state calmi, non vi succede niente, state calmi, state calmi”; e allora subito noi si chiede da mangiare. “adesso va, domani vediamo” eccetera. “Ho bella e capì: qui c’è la storia del morgen”. I tedeschi quando non ti volevano dire niente ti dicevano: “Morgen”; che vuol dire domani. “Morgen” per loro significava mai più.
Con gli inglesi era lo stesso?
E gli inglesi, non dico che erano uguali, ma son parenti fertili. Son parenti anche perché dalla Bassa Sassonia sono partiti i sassoni che hanno occupato nei tempi andati l’Inghilterra. Quindi gli inglesi sono dei sassoni. La Bassa Sassonia, il loro dialetto è il “Pladoich”, e il “Pladoich” non è altro che inglese. Da qui è derivato l’inglese dal “Pladoich”: perché loro l’hanno portato in Inghilterra, loro i sassoni. Quindi sono della stessa razza, perché sono della stessa razza. Gli inglesi no, perché ci sono forse ancora dei rimasugli dei romani, poi ci sono i celti, poi ci sono delle razze, tante razze comunque. Ma i sassoni c’han portato molto sangue, eh!
E’ stata una liberazione indolore?
Indolore, completamente indolore. Dopodiché siam partiti e siamo andati verso Brema. Ci siamo fermati, ci siamo fermati per un po’: una quindicina di giorni, venti giorni lì e poi a Brema, dopo di esser stato lì quasi venti giorni e mangiato molto bene, tutte le mattine c’erano, in questa caserma, un centinaio di bagni, di docce che funzionavano tutto il giorno, quindi ognuno poteva farsi anche venti bagni in un giorno, e cioè se ti vai a sfogare, ti vai a togliere la ruggine dopo che in due anni hai fatto un bagno si e no……
Avevate ancora i vestiti di quando eravate partiti?
Ah come eravamo prima: niente. Tutti stracciati, rotti, sbrindellati. Niente, e così, poi dopo, dopo c’è stato il fatto che anche lì, una cosa ridicola, con gli americani c’era la solita storia: che ti venivano attorno con delle pompe e con degli affari pieni di Ddt e te lo buttavano giù da tutte le parti; e noi dicevamo: “ma basta con ‘sto Ddt, con questa polvere”; che non sapevamo proprio neanche cosa fosse! E non sapevamo, non esisteva ancora per noi il Ddt. Ed era perché ci disinfettavano. Perché se c’erano dei pidocchi o pulci te li facevano morire…. Ogni tanto passava uno: “dai per favore mettetevi in fila!” E allora dava qualche pompata giù per di qua, giù per di là e poi se ne andava: aveva fatto il suo compito. Il suo lavoro del giorno era quello lì: pompare un po’ di Ddt addosso. Poi a Brema ci siamo stati poco perché da Brema al mattino c’han portato a Braunschweig o Hannover, non me lo ricordo. E il giorno dopo c’hanno cacciato su un treno e alla sera eravamo già vicini a Innsbruck, perché sono più di millecinquecento chilometri eh!
Come ha vissuto questo cambiamento della Germania in nazione sconfitta? Com’era il rapporto con i tedeschi a questo punto?
Tra noi e i tedeschi fuori non c’è mai stato nessun rapporto. Al massimo vedevamo i bambini, i ragazzi quando si passava con le tradotte da un campo all’altro, ma noi cosa abbiamo fatto da Benjaminowo a lì, un sei o sette giorni che al massimo si camminava più che altro di notte.
Quindi in completo isolamento.
Quindi in completo isolamento. Quindi i tedeschi, e anche con i polacchi che entravano con i cavalli a vuotare le cisterne, insomma con quella specie di cisterne che non erano cisterne fatte sul terreno, e anche loro portavano dentro del pane, dentro a quelle cose dove vuotavano le cisterne, quindi sporche. Quindi c’era del pane che assorbiva, che assorbiva tutto quello che c’era stato dentro prima; quindi c’era un dito di roba da buttar via, che puzzava di cacca. Però, se ci davi dei soldini te li portavano dentro anche loro. Magari loro passavano e davano qualche cosa ai tedeschi, perché era tutta una questione del genere perché, se i tedeschi dicevano: “tu non porti dentro niente”, ti vanno a guardare perfino nei calzoni, ma se a qualcheduno dai qualche soldino, anche loro se li prendevano. Perché tutto il mondo è paese sa? Non siamo mica soltanto noi che siamo dei ladri e che siamo dei borsaristi, lo sono anche gli altri; questo stia tranquilli, lo sono anche gli altri e tutti quanti. A cominciare anche dai signori inglesi, gli americani no. Perché loro se ne fregano di tutto. Loro, un americano non farà mai mercato nero, secondo me, perché è al di sopra di queste cose. Lui non sa che cosa vuol dire miseria, lui non lo sa. Ma gli altri popoli sì.
Il ritorno in Italia è stato difficile?
No è stato molto semplice perché in un giorno e mezzo sono arrivato a casa …
Ma le strade, i ponti, era tutto distrutto…
No, come le dico, a Bolzano invece che andare a…come si chiama quel paese lì?
Pescantina?
Si. Ma ho preso il camion a Bolzano, e da Bolzano c’hanno portato direttamente a casa, praticamente a due chilometri da casa in una mezza mattinata; cioè ci siamo fermati a Guastalla, che si era il solito: un pezzo di pane, due fette di salame e un bicchiere di lambrusco e poi siamo ripartiti. Il conducente, un parmigiano, lieto di aver mangiato.
E poi come avete passato il Po?
A Borgoforte.
Ma c’era il ponte?
C’era il ponte, quei ponti militari. C’era il ponte militare, sì.
Perché ho sentito di gente che è passata…
No, no lì c’era già il ponte, siamo passati dal ponte con il camion proprio. Non siamo neanche discesi. C’era, non so come si chiamano quei ponti militari….. qualcosa un nome del genere c’hanno; dove uniscono i barconi, i puntoni uno con l’altro e in mezzo c’è un coso di assi o di ferro su cui passano gli automezzi e passano uno per volta naturalmente, senza incrociarsi perché forse in due non passano, però siamo arrivati, c’hanno fatto passare, non so se hanno… se abbiamo aspettato il nostro turno.
Era atteso a casa?
Non sapevano niente. Non sapevano niente. E stato bello, è stato bello. Sì, molto bello. Molto bello.