Cernobbio 19 febbraio 2003.
Intervista al sig. D. Enrico, Cernobbio, 1920.
Soldato semplice, Divisione Forlì.
Deportato a Norimberga, poi ad Aschaffenburg, lavoratore coatto in una fabbrica
di strumenti di precisione.
Da che famiglia proviene?
Io provengo da una famiglia di artigiani, artigiani tappezzieri
e materassai. Sono stato orfano presto, mio padre è morto quando ero
in servizio militare nel dicembre del 1940. Io son stato chiamato di leva nel
marzo del 1940, quindi qualche mese prima della dichiarazione di guerra dell’Italia
agli alleati. La prima azione a cui ho partecipato è stata quella che
si è svolta sul fronte occidentale contro i resti di quello che era l’esercito
francese. Sono stato in Val Maira sopra Dronero, ero automobilista al servizio
di un reparto disponibile per il Comando di divisione, della divisione Forlì.
Finita quella campagna siamo rientrati in sede, caserma di Cuneo dove ci hanno
preparati per l’Albania. Siamo andati in Albania nel febbraio del 1941, siamo
arrivati al fronte poco prima che i tedeschi invadessero la Grecia dalla Bulgaria,
poco tempo prima quindi che finisse la guerra con la Grecia. Dall’Albania c’hanno
spostati in Grecia e abbiam fatto per un anno, sempre con questa divisione Forlì,
il presidio della zona della Tessaglia. Larisa come centro, Trikala, Lamia e
altri centri della zona. Nel 1942 ci siamo spostati, la divisione si è
spostata a Atene a sostituire la divisione Brennero che è stata mandata
in Africa settentrionale e lì abbiamo presidiato tutta la zona fino all’armistizio.
Durante la campagna con la Francia il mio ruolo era di portare in linea le munizioni
per l’artiglieria, le munizioni per l’artiglieria di mortai che chiaramente
non erano nelle trincee del fronte al contatto diretto con i francesi, ma erano
nelle postazioni che solitamente tengono i mortai, sulla linea del fronte. Questo
è il ruolo che ho svolto nella campagna con la Francia.
Nella campagna con la Francia non ho avuto modo di avere altri contatti con
quelli che allora erano gli avversari, non li ho mai neanche visti in faccia.
C’è stato anche qualche azione della mia divisione in cui sono stati
catturati dei prigionieri francesi, però questo lo dico solo perché
me l’hanno raccontato, perché ne ho sentito dire: io di esperienza diretta
non ne ho avuta.
Con la chiamata alle armi era la prima volta che andava via da casa?
Certo, era la prima uscita sul mondo, perché eravamo ragazzi allevati
in parrocchia, allevati nelle organizzazioni della gioventù fascista
di allora. Eravamo anche riempiti di notizie, di nozioni molto parziali, quindi
non solo era la prima uscita sul mondo ma era anche la prima uscita che affrontava
in diverse occasioni dei concetti nuovi, dei concetti di cui non si era mai
sentito parlare.
Fin qui è una piccola come dire, rappresentazione di quello che ha rappresentato
per me la prima chiamata alle armi.
In Grecia è stato diverso?
Dunque, in Grecia è stato diverso perché oltre che ad essere isolati nell’ambito delle Forze Armate, eravamo isolati anche dal vivere civile. Noi eravamo a ridosso del fronte però non abbiamo mai visto, se non quando la guerra con la Grecia era stata finita, io personalmente non ho mai visto un civile greco. Mentre quando la divisione si è spostata in Grecia abbiamo preso contatti, contatti subito cordiali però, con la popolazione greca. Contatti cordiali che sono stati provocati anche dal fatto della considerazione che i greci avevano per i nostri reparti. Abbiamo anche compiuto delle manifestazioni o delle… o abbiamo tenuto una condotta che ci ha anche accattivato le simpatie della popolazione greca perché gli italiani hanno sempre dimostrato di capire le difficoltà, i patimenti della popolazione greca. E si sono anche comportati in modo di intervenire con atti concreti anche di fronte ad episodi, a movimenti, a situazioni molto tristi di fame e di miseria. Non ho mai conosciuto civili francesi.
Vi hanno mandato in Tessaglia, quale era il vostro compito fondamentale come divisione?
Compito fondamentale era presidiare, sorvegliare che non succedessero cose strane, rivolte, azioni partigiane, attentati, tenere l’ordine. Questo è il compito normale di una unità militare che viene incaricata al presidio, a guerra finita di una certa… di un certo territorio.
E’ stato difficile mantenere quest’ordine?
In certe zone è stato difficile, in certe zone ci sono state azioni partigiane molto pesantine, molto pesantine, molto pesanti, però nei centri di una certa importanza l’ordine lo si è sempre tenuto. Nelle campagne, sulle montagne ci sono state molte azioni di partigiani greci, però specialmente contro i presidi tedeschi che neanche contro i presidi italiani perché noi, al momento, occupavamo la Grecia in compartecipazione coi tedeschi, anche se i tedeschi come numero di soldati impegnati erano molto, erano molto meno degli italiani, molto meno, ma molto meno!
Com’erano i vostri rapporti con i tedeschi?
Rapporti con i tedeschi: rapporti, rapporti freddi, di gente che si salutava, di gente che si vedeva, però che ricordo io non son mai stati rapporti molto familiari. I tedeschi poi erano malvisti dalla popolazione, molto malvisti e usavano modi certamente non paragonabili a quelli degli italiani.
Siamo all’ 8 settembre. Cosa succede l’8 settembre?
Dunque era già successo qualcosa prima il 25 luglio. L’8 settembre è successo che noi abbiamo avuto la notizia dell’armistizio prima dai greci che dagli italiani. Prima da qualche personaggio greco, che già si era manifestato in precedenza , come particolarmente al corrente delle vicende della guerra, che non dai nostri capi, che non dalle fonti italiane. E lì c’è stato un momento di euforia brevissimo, e poi ci siamo resi conto che le cose si mettevano male. Abbiamo aspettato quasi consegnati nei nostri alloggiamenti, quattro o cinque giorni, finchè fra notizie contrastanti è arrivata poi la notizia definitiva, da parte del comando dell’Armata, di consegnare le armi pesanti e le armi individuali dei militari. Avevano lasciato le sole armi individuali agli ufficiali in attesa di portarci tutti in Italia. Non ricordo più esattamente la data, ma 8 settembre circa, intorno al 20, intorno al 20 ci han caricato sulle tradotte, ci han caricato, han caricato almeno noi provenienti da Atene e dopo 18 giorni di girovagare per l’Europa, sfruttando le linee ferrate non impegnate per la guerra, siamo stati consegnati ai campi di concentramento a Norimberga.
Cosa ricorda del 25 luglio?
Il 25 luglio c’è stata la notizia dell’esito del voto in Gran Consiglio e quindi della destituzione di Mussolini e della presa del potere da parte di Badoglio e delle altre forze che operavano in quel momento in Italia. Non è che noi avessimo avuto grandi ripercussioni per quella notizia. E’ stata una notizia forte, anche per noi di basso livello. E’ stata una notizia forte che però non ha creato grandi sconquassi, ha creato più che altro manifestazioni, quello sì di gioia, da parte della popolazione greca.
Dopo l’8 settembre i vostri ufficiali sono rimasti con voi, sono anche loro finiti sulle tradotte?
Dunque i nostri ufficiali: qui bisogna distinguere, io parlo delle mie esperienze, non posso parlare delle esperienze di altri. I nostri ufficiali, i nostri ufficiali, voglio dire quelli coi quali eravamo in contatto noi, quindi i nostri comandanti del reparto nostro, gli ufficiali del comando di divisione, gli ufficiali del comando dell’armata sono stati con noi nel senso che sono stati catturati dai tedeschi, però allontanati da noi. Noi il viaggio l’abbiam fatto senza mai, senza ufficiali. Gli ufficiali erano stati caricati su delle tradotte a parte, e gli ufficiali, per quello che mi riguarda per quello che so io, dei miei ufficiali per averlo sentito anche dopo, sono stati disarmati al momento dell’entrata in territorio austro-tedesco. In Grecia poi per quel che riguarda il comportamento in generale dell’esercito ci sono state delle… dei comportamenti molto diversificati: chi è andato coi partigiani greci, chi è rimasto con la popolazione, chi invece ha seguito, la gran parte hanno seguito nella prigionia i tedeschi.
Quando vi hanno messo sulle tradotte eravate ancora convinti di tornare in Italia? Ha detto che è durato parecchi giorni questo viaggio...
E’ durato diciotto giorni.
Com’erano queste tradotte?
Le nostre erano…non erano particolarmente dure. Erano tradotte dalle quali si poteva anche scendere durante le fermate, sorvegliati, durante i quali ci si poteva anche avvicinare ai reparti tedeschi delle stazioni, quindi noi, io personalmente non posso dire che il viaggio è stato particolarmente duro. A parte il fatto che stare diciotto giorni su un carro bestiame non può essere chiaramente un episodio molto divertente.
Arriviamo a Norimberga.
Arriviamo a Norimberga, grandissimo grandissimo campo di concentramento, campo di….più che di concentramento, campo di smistamento.
C’erano solo italiani?
Io ho visto solo italiani, però ce n’erano anche di russi, ce n’erano anche di altre nazionalità. A Norimberga ci han tenuti sette-otto giorni e poi a gruppi, a seconda della domanda di manodopera che veniva dalle diverse città, dalle diverse aziende, dalle diverse industrie, dalle diverse attività, dalle diverse attività contadine ecceetera, son stati formati dei gruppi e avviati al lavoro.
Come hanno fatto questa loro selezione del personale? Credo che a Norimberga, me lo confermi, vi hanno schedato, fotografato, vi hanno sottoposto dei questionari. Hanno stabilito le vostre mansioni?
No, no, no. Ci hanno schedati e basta. Nessuna domanda circa le capacità lavorative, nessuna domanda circa la capacità di svolgere questa o quell’altra attività lavorativa.
A Norimberga vi è stato chiesto se volevate tornare in Italia con i reparti della Repubblica Sociale?
No, no, a questo capitolo arriverò più tardi. A Norimberga nessuno ci ha chiesto niente.
Il campo di Norimberga è stato semplicemente un campo di smistamento dove vi hanno indirizzato a diverse funzioni e diverse zone della Germania?
A diverse zone della Germania per svolgere una certa attività.
Noi siamo stati mandati in un piccolo lager, a Aschaffenburg in Alta Baviera
sul Meno. In questo piccolo lager dove eravamo in settanta, tutte le mattine
accompagnati da un sorvegliante tedesco, si partiva a gruppetti di tre-quattro-cinque-dieci
anche, per recarsi a svolgere certi lavori negli stabilimenti della città,
che era una città soprattutto con attività di metalmeccanica fine.
Io son stato mandato insieme ad altri due italiani in una piccola fabbrica,
trenta-quaranta dipendenti, che costruiva apparecchi di misura molto precisi,
molto sofisticati. Basta dire che si arrivava nella confezione per apparecchiatura
finita a delle tolleranze di meno 4 o 5 millesimi di millimetro. Anzi più
o meno 4 o 5 millesimi di millimetro.
Dunque all’inizio eravamo considerati prigionieri di guerra. Infatti ci avevano
stampato sulla schiena e sulle gambe, sulle ginocchia, il K e la G di “Kriegsgefangene”.
Siamo stati più avanti considerati internati civili, non ricordo bene
la data però, forse dopo quattro-cinque mesi.
Nell‘estate ’44, fine estate ’44, da luglio agosto…
Ecco, siamo stati considerati internati civili, non avevamo più la guardia che ci portava in fabbrica e avevamo anche la possibilità la domenica di uscire dal campo, dal lager per far delle passeggiate, andare al cinema.
Questo come civili?Vi sono state fatte richieste di adesione alla Repubblica sociale?
Questo come civili, dopo questi cinque o sei mesi di Kriegsgefangene. E qui è avvenuto un episodio che più mi ha addolorato di tutta la mia permanenza in Germania. Un ufficiale italiano accompagnato da un ufficiale tedesco si è presentato nell’alloggiamento a sollecitare l’adesione all’esercito repubblichino, facendo seguire anche delle possibilità di ritorsione verso chi non avesse aderito. Qui non è tanto il fatto che io abbia aderito o meno, quello che mi ha addolorato moltissimo è stato il fatto che ad aderire fu un mio amico cernobbiese, mio coetaneo, mio compagno di scuola, mio collega, mio compagno d’armi, il quale non ha saputo resistere al lavoro che stava facendo, pesante, e alle minacce anche se non molto esplicite di questo ufficiale che era venuto a sollecitare l’adesione. Questo per me è stato una cosa dolorosissima pensando che questo mio amico sarebbe tornato fra poco tempo a vedere la sua famiglia e che io me ne sarei rimasto lì, lasciando la mia famiglia nell’incertezza e nel dolore di non vedermi tornare insieme. Per il resto io devo dire che tutto il periodo della mia… internamento, prigionia in Germania non è stato un granché pesante. Fortunatamente eravamo in una zona in cui la gente era molto tollerante. Alta Baviera, una zona cattolica, una zona di gente abbastanza buona, abbastanza buona, abbastanza come dire… che capiva la situazione nostra e non è che ci facesse grandi colpe per quello che avevamo compiuto fino allora. Questo è stato come dire l’episodio più doloroso di tutta la mia campagna 1940 – 1945.
Che lavoro svolgeva? Che tipo di mansione di preciso svolgeva ? Com’era organizzato il passaggio dal lager alla fabbrica? Eravate sottoposti a degli orari e a dei regimi di controllo? Nella fabbrica lavoravano anche altri lavoratori coatti di altri paesi? C’erano tedeschi? Com’erano i rapporti in fabbrica?
Dunque la fabbrica ho detto che era una fabbrica di strumenti ad alta precisione. Io son stato impegnato su una macchina utensile, una macchina “Limouse” si chiama in termini tecnici. Fortunatamente io durante il periodo dell’addestramento con gli avanguardisti prima di esser chiamato a militare avevo frequentato con le organizzazioni del regime un corso motoristi, che era un corso valido per la preparazione eventualmente… un impiego sotto l’esercito. E avevo imparato anche a maneggiare utensili di quel genere, che poi mi son capitati fra le mani in Germania. Soprattutto mi avevan fatto imparare a leggere il calibro. I tedeschi mi han fatto una prova, mi han messo in mano un calibro, io ho letto e ho scritto su un pezzo di carta la misura esatta del calibro e allora mi han mandato su una macchina in cui occorreva fare uso frequente di questo strumento. I rapporti fra la fabbrica e il lager erano rapporti di informazione e di sorveglianza per i comportamenti che noi avevamo tenuto nello stabilimento. Gli orari erano orari: si lavorava dieci ore al giorno, con l’ intervallo di un’ora a mezzogiorno, e il lavoro non era particolarmente pesante, anzi! Io poi ho avuto la fortuna che mi han mandato a fare un lavoro che mi piaceva fare. E all’inizio ricevevo istruzioni da parte del tedesco che lavorava vicino a me su come dovevo lavorare questi pezzi. Pian piano però mi sono impadronito della tecnica della lettura del disegno meccanico, e quindi me la cavavo da solo. E i tedeschi son rimasti meravigliati di questo fatto, tanto più che per ben due volte ho dovuto fare dei pezzi sulla interpretazione e sulla lettura, una volta del capo dello stabilimento, e un’altra volta del padrone dello stabilimento in contraddizione con me. Per ben due volte questi pezzi che avevo dovuto fare così, si son dimostrati all’assemblaggio sbagliati e son… e li ho dovuti rifare come avevo detto io all’inizio. E i tedeschi tiravan fuori, tiravan fuori gli occhi dalla testa! Va bèh, però ecco son stato fortunato perché facevo un lavoro che mi piaceva fare, e ho imparato anche delle cose che non avrei mai creduto di poter imparare nella mia vita.
Riusciva a mantenere rapporti con la sua famiglia in questo periodo?
Sì, sì, c’era uno scambio di posta non frequentissimo, ma c’è stato anche, abbiamo ricevuto anche un paio di volte dei pacchi con degli indumenti, con dei cibi: scatolette di cibi o mi pare anche pezzi di formaggio parmigiano, qualcosa del genere.
Per il resto il cibo?
Ah! Il cibo era uno schifo! Il cibo era brodo, acqua con dentro delle rape, quelle rape grosse e gialle che generalmente si danno al bestiame. Alla mattina un po’ di acqua tinta con qualche sostanza tale da farla sembrare tè, e alla sera ancora quella minestra lì di acqua e un pezzo di pane forse 150 grammi di pane al giorno. C’era qualcosa di più alla domenica, la domenica c’era qualcosa di più. Però ecco la mia esperienza in quel campo lì non è stata un’esperienza così drammatica come sento dire purtroppo da tanti altri.
Avete percepito qualche forma di salario per questo lavoro?
Sì, qualche forma di salario, ma salario carta! Ci davano della carta che doveva esser più che altro della carta moneta, con la quale però potevamo acquistare, la domenica o quando si poteva uscire, erano per esempio delle bottigliette di una bevanda che sostituiva la birra, e quella la pagavamo con questi tagliandi, con questi ticket che ci davano. Però più avanti verso la fine, ci davano gli stessi Deutsche Mark coi quali pagavano anche gli operai tedeschi.
Questo nel periodo civile, lo stesso periodo in cui vi permettevano anche di uscire la domenica, nel primo periodo non vi permettevano di uscire?
No, assolutamente!
Che cosa produceva la sua fabbrica?
Erano dei pezzi che servivano agli stabilimenti che li ordinavano dove lavoravo io, servivano a mettere in lavorazione degli altri pezzi facenti parte di un macchinario più complesso, a metterli in lavorazione sotto delle macchine utensili già predisposte per ricevere nel punto esatto l’attrezzo che doveva lavorarli. Voglio dire, se il pezzo che doveva esser lavorato, anzi, il pezzo che doveva esser lavorato era un pezzo difficile da montare su una macchina utensile, su una fresa, su un tornio, su una limatrice, su una piallatrice, su una [Scheinmachine], lasciarlo all’operaio che lo doveva lavorare così com’era, avrebbe richiesto troppo impegno per piazzarlo sulla macchina nel punto giusto. Allora alla macchina che doveva fare la seconda lavorazione si installava il pezzo che facevamo noi, e su quel pezzo si montava il pezzo definitivo, in modo che il pezzo era già pronto per presentare all’attrezzo, alla fresa o alla punta che doveva lavorarlo, la parte che doveva essere trattata. Non so se mi son spiegato.
Eravate ancora vestiti da militari?
No, c’han dato delle tute, delle… un paio di pantaloni e una giacca di tessuto, quel tessuto che si usa generalmente negli stabilimenti meccanici, e la divisa la tenevamo come divisa dei giorni di festa, come abito dei giorni di festa; però io ho conservato per esempio la divisa fino al rientro in Italia.
Avevate assistenza sanitaria?
Dunque assistenza sanitaria specifica per noi non ne ho mai
vista. Io ho subito un piccolo infortunio in fabbrica. Io ho schiacciato un
alluce, l’alluce. Questo infortunio è stato curato in un giorno di riposo,
ma senza interventi particolari e poi subito dopo son stato rimandato in stabilimento,
tant’è che in stabilimento vedendo che facevo fatica a stare in piedi,
nei momenti in cui la macchina lavorava per conto suo mi è stato dato
uno sgabello per non affaticarmi. Assistenza di altro genere non ne ho mai vista,
anche perché non è mai capitato che qualcuno avesse avuto bisogno
di assistenza particolare. Eravamo in pochi e fortunatamente non mi ricordo
che qualcuno avesse avuto bisogno di assistenza sanitaria. Però in occasione
di questo piccolo infortunio, visto che la medicazione era stata molto sommaria,
i padroni dello stabilimento, della piccola fabbrichetta, han chiamato una sera,
chiamavano alla sera una suora, di un vicino istituto di suore, a farmi le medicazioni
fin quando poi la ferita è guarita.
C’è stato forse un altro episodio che dimenticavo, che quando mi hanno
spostato dal lager di inizio, iniziale, a un altro campo di concentramento,
al momento in cui è cambiata la denominazione nostra, invece di prigionieri
internati, in quel campo lì sono stato maltrattato dal custode del responsabile
dello stabilimento, il quale mi ha portato in uno sgabuzzino, mi ha fatto una
grossa reprimenda e poi nell’uscire mi ha dato un colpo di staffile che mi ha
aperto un po’ la guancia e mi ha fatto sanguinare una guancia.
A Norimberga?
No, no, no. No, no, no: non a Norimberga. Perché forse non abbiamo… no forse non l’abbiamo ancora detto: che quando c’è stato il passaggio da internato, da prigioniero di guerra a internato civile, c’han cambiato anche l’accampamento, c’han cambiato anche il lager. Siamo stati spostati in un lager molto più grande, dal quale si poteva anche uscire. Ecco in quel lager lì, mi è capitato questo episodio: perché, invece di uscire la sera in libera uscita, invece di uscire dal cancello principale, ero uscito da un’apertura che si era prodotta durante il bombardamento della città. L’addetto alla custodia dell’uscita mi ha rincorso, mi ha riportato indietro, mi ha mandato dal capo del lager il quale mi ha fatto questo piccolo trattamento di favore.
A quel punto la guerra, siamo nel ‘44, aveva preso una svolta ormai precisa. Avevate qualche informazione sulla guerra? Sapevate come stava andando?
Noi avevamo informazione da parte dei belgi, ecco in quel gran…
quel grande campo lì, dove c’hanno spostato dopo il passaggio da interna…
da prigioniero internato, c’erano anche dei francesi e dei belgi, e i belgi
erano sempre particolarmente informati.
Un altro episodio importante, è stato quando i tedeschi han lanciato
per la prima volta le …….. sull’Inghilterra. In quel momento lì, tutte
le fabbriche in Germania sono state fermate, i tedeschi han dato l’annuncio
del primo impiego di quest’arma segreta, che doveva poi… che avrebbe poi dovuto
risolvere le sorti della guerra. Han fermato lo stabilimento, han dato questa
notizia più agli operai tedeschi che a noi, e poi abbiamo ripreso a lavorare.
Come avvenivano i bombardamenti?
Il bombardamento è avvenuto: tre… tre… preavvisi. I preavvisi consistevano nel sorvolo di un apparecchio alleato sulla città, e nel lancio di una bomba sulla città. Non importava dove, non importava in che modo, e quando. Dopo di ché c’è stato il grandissimo bombardamento, che sulla città di centomila abitanti, ha rovesciato il contenuto di quattrocento quadrimotori alleati. E lì ci son stati sulla città di centomila abitanti, circa diecimila morti, non so quanti feriti, e il sessanta percento, settanta percento della città distrutta.
E’ stato interessato anche il lager da questo bombardamento?
Anche il lager. Però non c’è stata nessuna vittima in lager, perché eravamo tutti concentrati in un piccolo sotterraneo, e fortunatamente non siamo stati centrati da nessuna bomba. Però qualche bomba, ha centrato un paio di baracche sì.
Le persone che erano nel lager sono state inviate in città per collaborare alla raccolta delle vittime, allo sgombero delle macerie?
No, no, no. Le persone che erano in città, sono stati
chiamate dai loro datori di lavoro a lavorare nella loro fabbrica, per mettere
insieme, per aiutare a rimediare un po’ i danni che il bombardamento aveva fatto.
Ma non organizzati dalle autorità tedesche, sotto sempre la guida dell’azienda.
Ecco perché poi da lì, è incominciato lo spostamento dei
macchinari che si erano salvati, fuori dalle città, in capannoni fuori
dalla città. Quindi è stato fatto anche, questo è stato
fatto anche con l’aiuto di noi internati.
Il passaggio a civili quindi ha rappresentato un momento di libertà maggiore, potevate uscire la domenica. Anche le sere potevate uscire?
Anche alla sera. Anche alla sera ma, in pratica non c’era possibilità….. Perché si finiva il lavoro, si doveva andare in baracca a mangiare quel poco che c’era da mangiare, e poi il tempo successivo era molto ridotto.
Avevate un’ora per rientrare?
Avevamo un’ora sì. Adesso non mi ricordo più se erano…
Cosa andavate a fare in città? Com’erano i rapporti con i tedeschi?
A gironzolare, a guardare i negozi, di rapporti, non ce n’erano di rapporti. Fra di noi gruppetti, gironzolare, qualche vetrina, qualche cinema qualche volta alla domenica. Ma rapporti con i civili pochissimi.
Arriviamo verso la liberazione.
Dopo il grande bombardamento. No, anzi: prima del grande bombardamento,
in occasione del bombardamento preavviso del singolo apparecchio, ho avuto un
grande colpo di fortuna. Come questo apparecchio ha sganciato la bomba, eravamo
in stabilimento ancora tre o quattro persone. Siamo corsi in rifugio, in rifugio,
sono venuti anche i padroni dello stabilimento con un piccolo bambino, figlio
di uno delle sorelle del padrone dello stabilimento. E lì si è
presentato il problema di chiudere la porta del rifugio e nessuno riusciva a
chiudere questa porta. Perché le guarnizioni erano invecchiate, e per
altre ragioni di poco uso di questa porta. Io ho avuto un colpo di fortuna dico,
perché ho trovato la maniera veloce per chiudere ‘sta porta da solo.
Da quella sera lì, io sono stato considerato come l’uomo della sicurezza
in stabilimento.
Da quella sera lì, io non son più andato all’accampamento a condividere
il regime di vita di tutti gli altri, ma ho avuto a disposizione una camera
in casa dei padroni, e ho fatto vita in famiglia con i padroni dello stabilimento.
Questo fino alla… alla fine della guerra.
Questo vuol dire che gli ultimi mesi li ho passati proprio in un clima di grande…
di grande diversità rispetto a tutti gli altri miei compagni. Verso poi
la fine della guerra, si sapeva da informazioni che arrivavano soprattutto da
belgi, che l’esercito e gli alleati stavano avanzando, fin quando l’esercito
alleato si è fermato al di là del Meno, prima di attraversare
il Meno. Ci sono voluti otto giorni perché l’esercito alleato riuscisse
a passare il Meno. In questi otto giorni la città fu sfollata e noi ci
siamo sparpagliati un po’ a destra e un po’ a sinistra in case di civili, oppure
nel lager stesso, ad aspettare che gli americani occupassero la città.
Infatti dopo otto giorni la città è stata occupata ed è
stata presidiata dagli americani i quali ci han dato due o tre giorni di libera
uscita. E allora tutti ‘sti militari, a prendere quel poco che si riusciva,
che riuscivano a prendere nei negozi, finchè poi gli americani han detto:
“basta, adesso è finita la baldoria, adesso vi mettete anche voi in…
in riga”.
C’han tenuti poi due mesi in una caserma tedesca, e siamo stati impiegati solo
noi italiani, siamo stati impiegati dagli americani a scavare delle trincee
per farci passare l’acquedotto perché la città era senza acqua.
Questo è capitato solo agli italiani.
Dopo un paio di mesi, previa un periodo di quarantena nei dintorni di Innsbruck,
siamo stati portati in Italia e lasciati liberi a Pescantina. Ognuno poi da
lì, ha dovuto provvedere per proprio conto, a cercarsi la strada per
arrivare a casa. Io sono rientrato nella fine di luglio del 1945.
Come è arrivato a casa?
Sono arrivato a casa con un mezzo di fortuna , da Verona in qua, un pezzo su un camion, un pezzo su un treno, un pezzo così… autostop.
I suoi la aspettavano?
I miei m’aspettavano. Mi aspettavano sì, ma non è che sapessero che io ero lì per rientrare. Erano due o tre mesi che non avevano più notizie.
Questa esperienza tedesca poi le è servita anche nel lavoro successivo, nel suo reinserimento? Ha avuto problemi di reinserimento?
Non ho avuto problemi di reinserimento, perché l’azienda dove lavoravo io aveva disposto che tutti i reduci dovevano rientrare e il posto di lavoro era assicurato. Non ho avuto altri problemi di altro tipo di reinserimento perché l’attività che avevo svolto in Germania, che pur mi è poi servita, perché le esperienze poi servono tutte nella vita, capita sempre l’occasione di dover mettere in pratica o di dover applicare qualche cosa che qualcuno ha già vissuto e che hai già sperimentato però applicazioni dirette mai!
Lavorava già alla Bernasconi?
Sì
Quindi il reinserimento è avvenuto alla Bernasconi?
Certo
Che informazione avevate voi sui lager? Sul fenomeno della deportazione in generale?
Nessuna, nessuna, nel modo più assoluto!
Per ritornare un po’ all’inizio, lei ha fatto riferimento alla sua esperienza giovanile, alla sua attività, alla sua partecipazione alle organizzazioni cattoliche e anche alle organizzazioni fasciste. Quando lei è partito per la guerra, la guerra era già cominciata, quindi era già nell’aria, che impatto…
L’Italia non era ancora in guerra ma la guerra fra la Germania e gli alleati già c’era
Esatto, che impatto ha avuto, lei ha detto: “Io sono uscito, ho visto il mondo, ho appreso nuovi concetti”, ecco rispetto alla sua esperienza giovanile alla sua maturazione, cosa ha significato poi la guerra? La realtà della guerra rispetto a quell’immaginario di prima, a tutta quella preparazione che avevate avuto attraverso la scuola, attraverso le organizzazioni?
Ma noi non avevamo avuto una preparazione specifica per la guerra, avevamo avuto le parolone della retorica fascista però non specificamente rivolte a caricarci la testa di idee, di idee di guerra. Quindi mi è difficile adesso, con l’esperienza di sessant’anni dopo andare a esplicitare i sentimenti che rispetto a questo tema allora potevo aver avuto. Si andava in guerra consci che questo poteva rappresentare un pericolo, ma a livello nostro non sapendo niente di politica, non sapendo niente di affari, di condotte belliche, non è che ci facessimo grandi problemi o ci facessimo grandi interrogativi. La generalità, oltre il 98%, faceva il servizio militare perché allora uno doveva fare il servizio militare. Che poi fosse in guerra questo rappresentava una complicazione e un motivo di preoccupazione e chiaramente non è che si vedesse con occhio favorevole il comportamento delle forze italiane o delle autorità italiane.
Il suo rapporto con Don Marmori? Che cosa aveva ricevuto sul piano della formazione?
Avevo ricevuto una formazione religiosa e una formazione civile, nel senso della oggettività delle cose, quindi senza particolari accentuazioni di aspetti non strettamente religiosi, cioè a sfondo politico, anche se questi aspetti erano sicuramente sottintesi nei comportamenti e nei discorsi a carattere generale che si facevano anche di carattere religioso. Però devo dire che Don Marmori con noi, con noi, non si è mai……. almeno fino al ‘40, e poi non so cos’è successo dal ‘40 in poi. Fino al ‘40 c’è stato l’episodio dell’oratorio, gli episodi della, della come dire, dell’ostilità fra associazioni cattoliche e associazioni fasciste. “I preti in chiesa”, dipinti sui muri e robe di questo genere. Ecco in quelle occasioni sì che noi eravamo…siamo stati indirizzati a tenere la nostra linea ferma senza entrare però eccessivamente nel campo della politica. Questo fin al 1940. Poi…
Ha detto che lei era sottufficiale e che là aveva la responsabilità di un gruppo di…
Sì, avevo la responsabilità di un gruppo di compagni, di commilitoni coi quali dovevo, dovevo… Praticamente le mansioni erano pochissime: dividere le poche razioni di cibi che ci venivan consegnate non singolarmente ma per gruppi. Ecco io avevo il compito di dividerle: per esempio la mattina nel dividere la pagnotta del pane dovevo fare otto razioni e io cercavo di tagliare il pane in otto razioni uguali e a me restava l’ultima fetta dopo che tutti gli altri avevano scelto la loro, quindi avevo aguzzato l’ingegno per fare parti il più precise possibili!
C’è qualcosa che vuole aggiungere?
Ah, devo dire qualcosa riguardo gli studi compiuti. Allora esistevano dei corsi di ragioneria successivi alle elementari distribuiti su due quadrienni. Quadriennio inferiore e quadriennio superiore, io ho frequentato solo il quadriennio inferiore, notando che nel corso del quadriennio inferiore di ragioneria, di materie simili non si faceva nessun accenno. Le materie principali erano l’italiano, la matematica il latino e un’altra lingua straniera che per noi era il francese. Poi per necessità economiche della mia famiglia visto che dietro me c’erano altri quattro fratelli mi sono impiegato in una ditta tessile di Cernobbio, le Tessiture Seriche Bernasconi e lì ho svolto quasi tutta la mia carriera lavorativa prima come impiegato, poi come dirigente amministrativo, fino quando ho cambiato sede dopo la chiusura delle tessiture Bernasconi. Ho lavorato cinque anni a Milano in un’altra azienda tessile, dopo di ché mi sono licenziato definitivamente e ho svolto un’attività ancora per dodici anni, di consulente amministrativo finanziario presso un’azienda di Como che è la Mantero. Lì ho fatto dei lavori di controllo di gestione e soprattutto anche dei lavori di riorganizzazioni di reparti di produzione. A settant’anni ho smesso definitivamente di… non di lavorare perché ho lavorato ancora nell’orto e nei lavoretti di casa, ma ho smesso di svolgere un lavoro remunerato, a settant’anni.
Lei è la figlia, cosa vuole dire?
Volevo dire che il papà ha mantenuto i contatti con questa famiglia proprietaria della fabbrica, e questa è una particolarità.
Volevo sapere se è tornato in Germania?
Sì, io dopo essere tornato dalla Germania nel ‘45 non ho avuto più contatti fino al 1948. Nel 1948 ho ricevuto un invito dai padroni della fabbrica tedesca di recarmi in Germania a fare le ferie. Sono andato in Germania durante tre settimane in agosto del ’48, e mi sono rifiutato di aderire all’invito di rimanere lì e prendere in mano lo stabilimento, perché avevo ancora la famiglia sulle spalle, ero capofamiglia, e poi non mi andava assolutamente di inserirmi in un ambiente che non era il nostro ambiente italiano. Dopo il ’48 le relazioni si sono chiuse del tutto fino a quando nel 1994 a cinquant’anni dal bombardamento lì a Aschaffenburg, ho telefonato a questa famiglia di ex italiani per ricordare loro che si compiva l’anniversario di cinquant’anni del bombardamento della città. Questi mi han messo di nuovo in contatto con questa famiglia tedesca che son poi andato a trovare in Svizzera dove avevano una villa per i soggiorni estivi e invernali. Attualmente sono ancora una piccola, in un piccolo scambio di corrispondenza specialmente per gli auguri delle festività.
Cosa voleva dire signora?
Io volevo dire che non l’ha nominata quella famiglia lì
italiana, che era della Val Rendena, son stati quelli che aiutavano i prigionieri,
le ragazze andavano a portare di nascosto il pane e qualcosa da mangiare agli
italiani che erano nel lager. Ecco lì avevano fatto amicizia e l’amicizia
dura tuttora perché ci vediamo ogni due-tre anni a Spiazzo in Val Rendena
ed è quella famiglia che nomina adesso, che ha chiamato. E poi un’altra
cosa, che lui aveva fatto il primo ciclo di studi inferiori, però ha
sempre studiato, ha preso il diploma del Setificio, non è che ha fatto
la carriera che ha fatto soltanto con i quattro anni studiati… perché
a un certo ….dicevano: ha la Laurea ad Honorem perché lui ha sempre frequentato
corsi, sempre a spese sue, si è sempre aggiornato, praticamente ha studiato
più che andando a scuola, perché quella casa qui è sempre
stata la casa dei suoi studi.